Le note sono quelle di Les Pièces de clavecin di Rameau, mentre una danzatrice si muove sul palco. Si scioglie i capelli, si china fino a farli toccare terra e per un secondo sembra quasi che si radichino al suolo. Poi, con un colpo secco, li tende verso l’alto nel gesto di legarli. È una movenza semplice e quotidiana, ma si carica di un significato profondo: radicamento e tensione verso l’alto sono i due poli, gli estremi che contengono il flusso dell’esistenza, un flusso che lega l’uomo, l’universo e lo spirito. Lo stesso spazio scenico si definisce proprio in funzione di questo tendere di corpi. Sono ancora una volta i capelli, raccolti in una coda che copre il volto della danzatrice, a disegnare la scena. Con il loro ondeggiare rendono visibile l’invisibile, mostrano il tocco originario che attraversa il creato. Solcano l’aria, la spostano con il loro moto, rivelando che il tocco non è “presa”, possesso, ma riverbero. Nella coreografia firmata da Cristina Kristal Rizzo, nulla si crea dal nulla: causa ed effetto si uniscono in un’immagine fluida, riportando allo spettatore un profondo senso di totalità, effimera e inspiegabile, ma allo stesso tempo chiaramente percepibile. Non è un caso allora se i danzatori in apertura dello spettacolo, solcando il palco, descrivevano continuamente degli otto, simbolo dell’infinito, dell’unione tra principio e fine. Un infinito capace di unire un dentro, quello scenico, circoscritto dalla pavimentazione bianca della scena, e il fuori, tutto ciò che ci sta intorno, definito dal nero delle quinte. Tutto sta, è in equilibrio, fino a quando questa armonia non viene spezzata dalla presenza di un oggetto familiare: il cellulare. Portato in scena come prolungamento dell’essere umano, i danzatori lo mostrano tenendolo in mano, offrendolo al pubblico. Ecco allora che con il suo ingresso in scena, questo elemento esterno rompe l’equilibrio, rendendo il movimento dei danzatori privo di quel senso di sovrapposizione tra suono e movimento che li aveva caratterizzati. La presenza dei cellulari costringe alla ripetizione di sequenze corporee, che si dipanano in maniera meccanica, di posa in posa. Far mostra di sé diventa necessità primaria seppur innaturale e rivela la distanza incolmabile tra reale e virtuale.
Agnese Di Girolamo
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview