di Luigi Pirandello
regia di Gabriele Lavia
visto al Teatro Argentina di Roma _ 8 Gennaio-10 Febbraio 2012
Anno nuovo, nuovo Pirandello. Il Teatro di Roma commissiona al proprio direttore artistico un omaggio al grande Premio Nobel siciliano. Gabriele Lavia sceglie Tutto per bene, un testo – come tanti suoi altri – non nato espressamente per il teatro ma che dalla prosa reinventa una propria materia scenica. In questo Pirandello si era specializzato, in gran parte per esigenze commerciali: con un corpus di narrativa così vasto e una penna geniale come la sua, l’adattamento aveva finito per diventare un’arte.
Il racconto originale, datato 1906, viene poi raccolto nella celebre raccolta Novelle per un anno. Quattordici anni dopo la riduzione debutta al Teatro Quirino di Roma. Ottantadue stagioni più tardi Gabriele Lavia decide di agire sulla drammaturgia aggiungendo e montando spezzoni di prosa, senza – apparentemente – un reale successo.
La vicenda racchiude uno dei topos pirandelliani più noti: la maschera sociale, quel ruolo che la comunità borghese impone a tutti i propri attori. Se in altri drammi sono i protagonisti a scegliere la propria, il Martino Lori di Tutto per bene subisce il meccanismo finendo per vivere per vent’anni la vita di qualcun altro, ignaro di un evento fondamentale che di lui ha determinato un’immagine e di conseguenza un’opinione comune.
Lavia si serve di tutte le economie a disposizione (e non sono poche) per creare un’atmosfera attraverso scenografia, costumi e luci. Gli interni borghesi rivivono in una monumentalità più fascista che liberty: mobili lussuosi, pavimento a scacchi, luci fortemente contrastate e una gigantesca vetrata di fondo da cui lampeggiano i tuoni di un temporale esistenziale. Questo ambiente sembra appartenere più a Strindberg che a Pirandello, del quale – immersi in una melassa così seriosa – si rischia di perdere la leggerezza con cui illustrava ogni apologo, anche il più tragico.
Se è vero che il dramma in sé presenta delle debolezze, certi capricci di regia spostano ulteriormente l’attenzione da quello che sarebbe un messaggio semplice e che preferirebbe la pura psicologia ai meri psicologismi. Così, se può valere la scelta di tenere costantemente presente in proscenio la tomba-mausoleo della defunta moglie di Lori, appare più maldestro il tentativo di innesto tra novella e dramma: il quadro iniziale (mimato su una voce off che legge brani della prosa) tra Lori e Salvo Manfroni svela troppo e troppo in fretta, bruciando la funzione illustrativa dell’intero primo atto.
A guardar bene si potrebbe forse ravvisare una falla nella lettura del testo. Passando dalla novella (molto più letteraria di tante altre) alla scena, Pirandello sapeva bene di aver bisogno di un elemento fondamentale: un colpo di scena. Nel racconto è il sopraggiungere di un ricordo, forse rimosso, a permettere a Martino Lori di ricostruire l’intrigo; il passato ritorna in una sorta di delirio completamente personale, mentale, vissuto nell’intimità di una stanza. Nel dramma quella consapevolezza giunge tramite un accidente, uno scambio di persona, e quel colossale malinteso diviene insopportabile proprio perché improvvisamente pulsa negli occhi e nelle parole di tutti gli altri personaggi. Lori è circondato dalle prove vive della propria inettitudine ed è proprio questa posizione di rapporto a tramutare l’inettitudine in effimera violenza.
La regia di Lavia, fatta eccezione per qualche intuizione visiva come il lugubre velatino che separa proscenio /cimitero e scena/salotto, punta ancora una volta troppo sul lavoro del mattatore. L’indiscutibile mestiere gli permette, da protagonista, di tratteggiare un personaggio struggente, lontano da qualsiasi consistenza, infantile e penoso. Ma è il rapporto con gli altri personaggi che dovrebbe far scattare la trappola della maschera sociale. Se quel rapporto, soffocato da una supremazia del grande attore, si interrompe, la rappresentazione di quella società borghese smette di essere precisa, si confonde in un coro che si limita a far da spalla, perdendo del tutto la potenza e cancellando lo schiaffo (fin troppo) morale che Pirandello voleva assestare ai propri contemporanei.
Così sono i nostri contemporanei a restarsene al sicuro, una volta di più inchiodati alle poltrone a veder accadere qualcosa di già preparato, di posticcio, senza la reale possibilità di mettere in discussione nulla del proprio stesso ruolo. E allora che ci siamo seduti a fare?
Sergio Lo Gatto
Questo contenuto è parte del progetto Situazione critica
in collaborazione con Teatro e critica