«Ho sempre avuto una strana certezza di un mondo oltre il mondo, e già da allora me lo configuravo come moltitudine della quale avevo rispetto, attrazione e terrore. Credo sia proprio questo che il sacro attiva in noi», ha rivelato Mariangela Gualtieri in una recente confidenza. Qualcosa è avvenuto intorno alla comunità teatrale del Lavoratorio, nido provvisorio per La delicatezza del poco e del niente, riportato in scena dopo qualche anno da Roberto Latini con la produzione di Fortebraccio Teatro e Compagnia Lombardi-Tiezzi. È qualcosa che porta in sé sacralità e terrore e che si muove tra due o più mondi, grazie al privilegio di stare, di nuovo e nuovamente, nelle parole. In un permesso acconsentito tacendo, durante un incontro con la poetessa cesenate battezzato dalle lucciole, quel qualcosa era già avvenuto. Latini dà così voce, in uno spettacolo dove l’attore si fa anche ascoltatore, ad alcune delle sue poesie. Al silenzio e al vuoto, cari a entrambi, dobbiamo soprattutto guardare, per indagare più a fondo: a cosa possiamo rivolgere dunque lo sguardo in questo spettacolo? Una prima risposta arrivò a Latini, già nel momento del suo primo approccio al teatro, da Perla Peragallo: non c’è niente da guardare.

In vesti bianche, quasi accecanti, tra una giacca-nuvola gettata sul pavimento, le fedeli musiche di Gianluca Misiti e una luce precisa di Max Mugnai, l’attore si è lasciato attraversare da poesie tratte da molteplici raccolte. Si inizia con un arrendersi, un dichiararsi ascoltatori: Il monologo del non so. Poi la voce sembra uscire diversa e prendere vita autonoma: Sermone ai cuccioli della mia specie; seguono parole da Ossicine, Voci tempestate, Fuoco centrale, Paesaggio con fratello rotto
Latini, due volte premio Ubu, direziona le aste dei microfoni come se dalla vicinanza e dal tocco dipendesse tutto il resto, come fossero un tutt’uno in un dialogo con l’attorno. Ancora una volta, è una naturalezza che suscita rispetto, ammirazione e terrore per quella voce venuta da chissà dove. In questo esercizio dell’avere a che fare con la paura, del farsi trovare pronti, del prendersene cura, ci siamo lasciati attraversare tutti, nel disarmo della scena, in un bisogno che imbriglia spettatore e attore, a tratti illuminato e squarciato dal tentativo di restituzione in voce.

«La poesia di Gualtieri, se è, è perché non è altro che la visione cieca, ma reale e molteplice del sacro», scrive Arnaldo Colasanti nell’antologia Braci, riflettendo sulla natura del silenzio nella poesia. Sacro, parola complessa, va inteso come divisione ma anche come maledetto, quasi una voce prestata prima a uno e poi all’altro concetto in un’alternanza senza timori. È una voce assieme del demone e dell’angelo messaggero: senza genere. È un donarsi alle creature di un mondo oltre il mondo veicolato dal silenzio. C’è stato un graffiarsi lieve della parola quando, per disavventure tecniche, un tonfo ha dirottato il funzionamento del microfono: ma è stato un rumore venuto da mondi lontanissimi, che ha fatto eco ancora prima di spaventare e svegliare chi ascolta. A questo rumore ci si arriva soltanto, e non sempre, solo se non abbiamo altro da guardare se non al vuoto.

Come un diavolo necessario (da diabolum, colui che divide), uscito dai contributi ministeriali per proteggere quella parte di sé forse artistica, forse solo responsabile, Roberto Latini sa dare ferite perfette e al contempo mantenere quella delicatezza del poco e del niente. Da quel niente tutto viene, e a volte nelle piccole comunità provvisorie brilla una luce che diviene, per dirla con parole di Gualtieri «ciò che ci rende umani».
Ci vuole un luogo dove tornare ad abitare, momentaneamente, quel vuoto che sa creare la bellezza.

Joana Preza


foto di copertina: ufficio stampa

LA DELICATEZZA DEL POCO E DEL NIENTE
poesie di Mariangela Gualtieri
regia e interpretazione Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
produzione Fortebraccio Teatro, Compagnia Lombardi-Tiezzi

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica