di Elektromove
visto al Crt Teatro dell’Arte di Milano _ 2 novembre 2016

Nel corso della tavola rotonda che ha aperto la terza edizione di Più Che Danza, festival dedicato alle arti performative in Lombardia, si è discusso con pubblico e artisti dei percorsi e delle possibili mete del contemporaneo. Dall’incontro tra i linguaggi che “parlano senza parole” è emerso che nel cosiddetto “terzo paesaggio” – quello delle più disparate espressioni cui ha lasciato il passo la modern dance del Novecento – non è possibile individuare una direzione univoca. È proprio dall’impossibilità di applicare agli artisti di oggi un’etichetta che esaurisca la molteplicità delle forme che nasce la provocazione della direzione artistica: Franca Ferrari (ideatrice del progetto, coreografa e insegnante) fra il 29 ottobre e il 3 novembre raccoglie al CRT venti performance dai linguaggi eterogenei, perché il pubblico milanese possa godere di un’offerta che valichi confini e preconcetti.
L’occasione è quella di curiosare fra formule insolite, come l’incontro di circo, narrazione e orchestra in L’avventura di Mr. Jaiva di Leonardo Bolgeri o la relazione fra corpo e luce in Light Prospectus di ResExtensa. Si può riflettere sulla società odierna con gli spettacoli di Raffaella Agate (Studio per un’amante precaria) e Rossella Raimondi (Medea delle case popolari ha perso il Centro), e rileggere Erri De Luca insieme alla Compagnia TeatRing nel loro Tu, Mio. La partecipazione dello spettatore diviene parte del processo creativo nelle coreografie istantanee di Paysage en mouvement (Lelastiko) e nelle interazioni fra pubblico e performer alla base di Cheerleaders (Collettivo Pirate Jenny) e Intimacy (Marcella Fanzaga) Il tutto ospitato insieme a mostre, proiezioni video e laboratori negli spazi della Triennale, sui quali è stata appositamente cucita Sorgente: un’ “istallazione corporea” pensata dalla stessa Franca Ferrari.

È nella varietà di questo contesto che il poliedrico Marco De Meo inserisce il suo Darkroom, sfaccettata e sincera riflessione sui modi di vivere i problemi del nostro paese. In un’Italia allo sbando, paralizzata dalle difficoltà trascurate e dal malgoverno degli egoismi, in preda ai deliri facili della tv-spazzatura e incapace di offrire un terreno sicuro ai suoi cittadini (e non solo agli artisti) è comprensibile che, delusi, si cada nel cinismo sterile dell’esterofilia. Ma non è con la fuga che potremo realizzare noi stessi in libertà, ci avverte De Meo. Non gli resta dunque che fare ciò che al suo paese non riesce: penetrare i problemi, per scioglierne i nodi mai districati.
Attorno alla bandiera italiana saldamente piantata al centro della scena il performer dispiega gli strumenti raccolti in più di un decennio di esplorazione dell’arte, perché la ricerca della propria espressione individuale divenga bisturi e cura della società in cui si trova a operare. Nella sua darkroom, De Meo non disprezza di farsi Italietta: è con limpida schiettezza, lontana da acredine e moralismi, che presta il suo corpo al becero nazionalista, alla bigotta vogliosa, alla sciocca showgirl. E così il danzatore si trasforma in velina, il video-maker ci bombarda di lampeggianti Maserati e traboccanti Martini, il mimo ammicca dai panni degli stereotipi che ci rendono celebri al mondo, intrecciando un tessuto rapsodico denso ma a suo modo eloquente. Ma fra le spine del nostro paese a cui il performer intende offrire il suo fianco non c’è solo chi si rifugia nelle luci attraenti di un’Italia dalle soluzioni facili: c’è anche l’angoscia di chi queste illusioni non se le può permettere, e dal buio emergono il dolore di Rosaria Costa, vedova colpita dalla Mafia, o la cieca disperazione dell’operaio che ha perso il lavoro.
Non esistono quinte nello spettacolo, non c’è salvagente che possa proteggerci da questa immersione: De Meo – straordinariamente camaleontico – scivola da un quadro all’altro esponendosi senza esitazione a continue trasformazioni, perché, uno per uno, tutti i nuclei dolorosi del nostro presente siano raccontati. E così, rivivendo i lati più oscuri della società contemporanea, il teatro diviene la “stanza buia” in cui, liberi dallo sguardo degli altri e soprattutto dal proprio, si possa ascoltare e abbracciare anche gli scheletri del proprio armadio: il corpo diventa a sua volta strumento terapeutico per il performer, che piano piano nel corso dello spettacolo si spoglierà degli indumenti di troppo per raggiungere finalmente l’essenza della propria identità.

Nicola Fogazzi