“La democrazia contiene violenza”. “È la dimostrazione di violenza di una maggioranza”. Sono due battute fulminee che si susseguono a breve distanza nell’ultimo dei cinque episodi di Afghanistan: il grande gioco a dare il senso alle quasi tre ore di spettacolo in cui si percorrono centocinquant’anni di storia di rapporti tra Oriente e Occidente, Islam e Cristianesimo, realpolitik e nazione nel senso moderno del termine.

Due battute, si diceva, dove l’attualità entra di forza nella storia (tragica) di un paese martoriato da colonialismo e interessi deviati, divisioni tribali e opportunismo, e la invera, la concretizza. Così che d’istinto, dalle parole pronunciate da Najibullah (l’emiro filosovietico, quarto e ultimo presidente della Repubblica democratica afghana, prima della conquista dei Talebani, che lo uccisero nel 1996) la mente torna a un neologismo che giornalisti, analisti e filosofi, dagli Stati Uniti all’Europa, usano sempre più spesso per definire le democrazie moderne, o presunte tali. Il termine è democratura, ovvero una stortura della democrazia dove un uomo forte, eletto dal suo popolo, usa tutti i metodi, leciti (e soprattutto illeciti), per sistemare problemi di ogni ordine pubblico. Si è usata la parola per Putin, per Duterte, lo sceriffo filippino, per Erdogan. Tutte queste sono formalmente democrazie; allo stato dei fatti, però, assomigliano più a regimi.


Così, tutti coloro che sono sbarcati in Afghanistan, dal 1842 a oggi, prima gli inglesi, poi i russi, poi i pakistani, infine gli americani, arrivavano sotto le spoglie dei conciliatori, dei portatori di modernità, di occidentalizzazione; in fin dei conti, di democrazia. E invece, sottolinea la drammaturgia commissionata a cinque drammaturghi dal Trycicle Theatre (una delle più vive e autorevoli officine di teatro politico inglese) erano conquistatori, dominatori, autocrati. Ciascuno con le sue idee, ciascuno chiuso nella sua bolla di potere, arroganza o superiorità. Lo si capisce al meglio nel secondo episodio, La linea di Durand, dove uno sconfortato Sir Mortimer Durand, segretario degli esteri del Raj britannico (l’impero anglo-indiano), tenta, insieme all’emiro afghano Abdur Rahman Khan, di negoziare i confini tra il Raj, di cui il Pakistan faceva parte, e l’Afghanistan. La scena si sviluppa con i due accovacciati sopra una massa di tappeti persiani, tutto suggerisce ricchezza, lussuria, modi affettati, mentre il funzionario cerca di spiegare con forbiti termini l’utilità e la necessità delle mappe: senza confini non c’è progresso. Ma l’emiro non mangia la foglia e con ironia smonta e rimonta le tesi del britannico, spiegandogli che tracciare un confine in queste terre, semplicemente, non è possibile. Per la cronaca: oggi la linea Durand è riconosciuta a livello internazionale, ma sulle mappe si fa ancora fatica a tracciarla.

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Lo spettacolo, per la regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, lavora sulla storia e sui documenti, ogni capitolo è intervallato da foto, video di repertorio e da un commento cronologico, il ritmo è concitato (qualche passaggio soffre un po’ di lungaggine, ma la complessità dei temi a tratti lo richiede), l’approccio non è mai troppo didascalico, la chiave di lettura c’è sempre, ma non è invasiva. Tra apparizioni, come fantasmi, di re decaduti e cospiratori, agenti segreti e combattenti islamici, si sbroglia la matassa dei fatti come in un film d’avventura. E che avventura.
Per esempio quella della regina Soraya, moglie di re Amanullah, che regnò dal 1919 al 1929 e in dieci anni divenne il simbolo di modernità del paese, togliendosi il velo e lottando per l’istruzione delle donne. Ma era troppo, per quel tempo e per quel paese. Ancora una volta la modernità e la democrazia non sono andati di pari passo con la pace. Il re e la regina vennero costretti alla fuga da una rivolta dei capi tribali e religiosi, scoppiò una guerra civile che, lascia intendere lo spettacolo, non si è mai conclusa, ennesimo cancro di una nazione che non sembra poter essere unificata, democratizzata, pacificata. O forse è proprio la volontà incolmabile dell’altro, dell’invasore, di approdare e saziare la sua fame di ordine e progresso che non può placarsi.


Cast inappuntabile, scenografie e costumi vivi e sobri, pubblico attento e partecipe. Un bell’esempio di teatro politico, contemporaneo, pulito e civile. Il viaggio è assicurato: resta tutta la destrezza e la magia del teatro, rimangono l’amaro della cronaca e la patina della storia. E nasce la voglia di saperne di più, per giudicare meglio.

Francesca Gambarini

Afghanistan: il grande gioco
di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson
traduzione Lucio De Capitani
regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
video Francesco Frongia
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri