di Adriana Borriello
visto al Teatro Comandini di Cesena _ 8 dicembre 2015nell’ambito di Osservatorio Màntica 2015

Tre danzatrici in scena si rincorrono in cerchio: paiono divorare, in un vortice, lo spazio che le circonda. È una serrata trasmissione da corpo a corpo che paralizza lo sguardo per impulsi, trasformandolo, quasi per osmosi, in movimento. Col corpo capisco, performance di Adriana Borriello, si presenta come un’abile partitura fisica, un “manifesto del sentire”, così definito dalla stessa coreografa. Il corpo-matrice della Borriello diventa il centro di gravità attorno a cui ruotano i corpi ricettori delle performer Donatella Morrone e Ilenia Romano, contagiati e destinati a dare sfogo a quello stesso movimento. Tramite indispensabile del loro sentire, la musica, eseguita dal vivo da Roberto Paci Dalò.

Mentre il pubblico entra in sala, la scena appare già sommersa da un caos di oggetti sparsi a terra: le performer riordinano, piegano i vestiti con movimenti che ogni tanto rallentano e si bloccano, per essere riavvolti in un microscopico rewind che li amplifica. Quando la scena resta spoglia, le danzatrici iniziano a comporre una coreografia corale che precede il nucleo principale dello spettacolo, in cui si origina un moto di impulsi che “cade” da un corpo all’altro. Gli sguardi delle performer si scrutano, alternandosi: il corpo-matrice, osservando i corpi-ricettori, lascia loro la possibilità di “estrarne” i movimenti, declinandoli secondo moti propri. Ci si perde inevitabilmente in questo perpetuo rimbalzo, disorientati da una rincorsa del sentire che fluisce come un liquido invisibile ma percettibile. Difficile seguire l’intreccio dei movimenti, difficile scinderli dalla loro connessione intima: dove lo sguardo delle performer cade, il corpo sembra recepire, trasformando quanto visto nel proprio centro di gravità.

Col corpo capisco diventa allora forse la materializzazione più cristallina della ricerca di quell’invisibile tanto invocato da Chiara Guidi per Osservatorio Màntica. Adriana Borriello sembra quasi disporre geometricamente i fili della percezione, li sparge tra i corpi perché diventino per paradosso la materica sostanza, lo spessore di qualcosa che non va letto per somme e sottrazioni, ma per accostamenti e impulsi. La coreografa tende il passo più in là, traducendo una possibilità non scontata: riavvolge il corpo al suo più innato linguaggio-ingranaggio, cioè a un ascolto che non espone, ma trattiene, facendosi così magma di possibili connessioni. E lo fa distogliendo lo sguardo da un’alterità concepita fin troppo spesso come mero involucro che vede nell’incomunicabilità la giustificazione del farsi arte. Col corpo capisco invece, dimostra e rende credibile con sapiente rigore, la necessità di un corpo scenico posto in una “sconnessione comunicante”, capace di tracciare nuovi ed indispensabili punti-ricettori al sentire del teatro d’oggi.

Carmen Pedullà