Grande era l’attesa per conoscere le sorti del Festival di Atene ed Epidauro 2016, soprattutto dopo lo scandalo economico (un “buco” di 2,7 milioni di euro) che aveva portato, alla fine dello scorso anno, alle dimissioni forzate del direttore Ghiorgos Loukos. Le polemiche si erano appena sopite, quando il 10 febbraio 2016 il governo annuncia il nome del nuovo direttore che darà lustro e grande visibilità internazionale al Festival. Si tratta di Jan Fabre. Le reazioni del mondo teatrale greco sono di sorpresa e di grandi speranze. Il maestro belga è molto noto in Grecia sia per la sua caratura artistica che per i lavori teatrali, studiati e apprezzati per la forte energia dissacrante (in ottobre 2015 era a Salonicco con Mount Olympus).

Si attende dunque con ansia la presentazione del suo programma, chiamato a segnare una nuova epoca del Festival, quando finalmente la conferenza stampa viene convocata per martedì 29 marzo, con grande eco su tutti i media ellenici.

Seguiamo ad esempio il racconto di Ileana Dimadi (athinorama.gr, 29/03). Tutto si svolge in pompa magna, nell’anfiteatro del Museo dell’Acropoli, l’ingresso è su invito e la partecipazione è riservata ai giornalisti accreditati. Negli anni scorsi invece la conferenza stampa era un evento aperto, un primo momento di confronto e dialogo, con l’ingresso libero di attori, registi, operatori del teatro, giornalisti, ma anche di curiosi e spettatori.
Fabre, che ha ricevuto dal governo la nomina per guidare il Festival nei prossimi quattro anni, chiarisce subito: per evitare chiusure di tipo nazionalistico, la sua idea è «una piattaforma internazionale di dialogo, scambio di pratiche e diffusione di idee». Le scelte si muoveranno quindi nel segno della multiculturalità e per questo d’ora in poi il festival acquisterà nella denominazione l’importante aggettivo di “Internazionale”. Ecco il primo passo falso di Fabre. La vocazione internazional-multiculturale non è certo un elemento di novità rispetto al passato: tali principi hanno caratterizzato fin dal suo atto di nascita il Festival di Atene.

Alla domanda puntuale sul bilancio previsionale di spesa, Fabre taglia corto quasi seccato: «Il denaro è solo uno strumento. Puoi fare un festival con un euro o con un milione di euro, ma noi siamo qui a scambiare idee e parole, non soldi». Una tattica retorica tutt’altro che efficace, soprattutto se il tuo predecessore è stato silurato per uno scandalo economico e ti trovi in un Paese che è sotto capital controls e in cui la cultura deve fare ogni giorno i conti con tagli e difficoltà estreme.

Durante la conferenza stampa non vengono poi precisati date, luoghi, nomi di artisti o produzioni. L’unica cosa certa è che il 2016 sarà dedicato ai lavori di Fabre (ad esempio Mount Olympus sarà in luglio a Epidauro) e agli artisti belgi. Ciò che invece è già chiaro è che la produzione greca sarà totalmente assente: i progetti depositati entro i termini previsti (novembre 2015) non saranno presi in considerazione per mancanza di tempo. Alle domande dei giornalisti, che lo incalzano soprattutto su questo punto, Fabre replica con candore che non conosce la realtà teatrale greca e quindi ha deciso di portare ad Atene il meglio del Belgio. Negli anni successivi, aggiunge poi, ci sarà spazio anche per alcune produzioni greche (un terzo della programmazione) e promette infine l’arrivo di Big del calibro di Romeo Castellucci, Isabelle Huppert e Bob Wilson (artisti che peraltro sono già noti al pubblico greco). Per maggiori dettagli, rinvia a una futura conferenza stampa.

La miccia è innescata. Il giorno successivo i giornali titolano: “Un festival belga al 100%”; “Jan Fabre: le Festival c’est moi!”; “Dimenticate il Festival di Atene: arriva il Festival di Bruxelles”. Iniziano a levarsi le proteste del mondo teatrale greco e moltissimi spettatori già minacciano di boicottare il “festival belga”. Le autorità si mobilitano istantaneamente: il ministro della Cultura convoca Fabre per convincerlo a inserire nel programma qualche produzione greca e si registra anche un tweet rassicurante da parte di Tsipras, che promette il suo intervento personale presso l’ospite straniero per un Festival più greco.

Non è certo un pesce d’aprile quando, il primo del mese, il teatro Sfendoni di Atene si riempie. Il tam tam dei social ha funzionato: l’occasione è un dibattito pubblico, serio e indignato, sulla questione Festival-Fabre. A condurlo personalità di spicco fra cui il direttore del Teatro Nazionale e numerosissimi autori, attori, giornalisti, operatori del settore. Il teatro è gremito, c’è grande partecipazione di pubblico e, inevitabilmente, qualche eccesso, connotato politicamente in chiave nazionalistica. Alla fine il risultato è una lettera aperta all’artista belga, scandita da critiche precise: non gli si perdona l’approccio “aristocratico” ed esclusivo della sua presentazione, la mancanza di un dibattito interlocutorio, come pure la scelta di un circolo belga di collaboratori. Si evidenzia la discrepanza fra le dichiarazioni di apertura internazionale e un programma invece Belgio-centrato, dove la parte del leone la fa lo stesso Fabre. C’è poi l’aspetto più scottante: la scarsa considerazione del panorama teatrale greco. Infine la nota sulla presenza futura di alcuni artisti greci viene interpretata come benevola concessione a chi si farà “iniziare” al metodo estetico-Fabre.
La lettera si conclude con parole pesanti come pietre e la richiesta di dimissioni immediate: «Per tutti questi motivi, per l’arroganza e l’evidente totalitarismo artistico che lei ha dimostrato, lei, signor Fabre, rappresenta per noi persona non grata» (qui trovate la traduzione della lettera in francese).

Il giorno dopo, con un secco comunicato che denuncia il clima ostile nei suoi confronti e l’impossibilità di attuare in Grecia scelte artistiche libere, Fabre rassegna le dimissioni e risponde agli artisti greci con una lettera aperta in cui cerca di parare i colpi, attribuendo alla Direzione le gaffes di stile o di protocollo e in cui ribadisce – forse con eccessiva ostentazione – le sue ripetute presenze in Grecia e il riguardo particolare per la difficile situazione economica. Fabre chiarisce che il programma era ancora in fieri e che naturalmente avrebbe compreso anche un maggiore coinvolgimento della comunità artistica greca, tuttavia difende la proposta “internazional-belga” bacchettando i greci e ricordando che un festival è una piattaforma di confronto e dialogo per conoscere l’altro e non solo per presentare se stessi. «Comprendo – scrive – le paure e la delusione degli artisti greci, che si trovano in così dure condizioni di vita e di lavoro. Tuttavia credo che queste argomentazioni siano di ordine socio-economico e non artistico». Per finire, si toglie un sassolino: «Avete aperto la bocca contro la mia nomina a curatore e il mio programma, l’avete aperta con potenza, con passione e tutti insieme. Tenetela aperta: che sia un inizio, e non la fine. Ma non dimenticate di aprire anche le orecchie e gli occhi».

Le argomentazioni delle due parti viaggiano su binari diversi. La scarsa conoscenza dimostrata da Fabre e l’implicito deprezzamento della realtà greca (piccola e periferica), vengono interpretati dai greci come un tentativo di “colonizzazione culturale”. Ed è una lettura comprensibile nel momento in cui la mano pesante dell’Europa sta schiacciando, in Grecia, ogni possibilità di decisione autonoma.
Stupisce dunque che il grande artista internazionale dichiari da una parte, con atteggiamento velatamente paternalistico, di voler sprovincializzare la Grecia teatrale, mentre dall’altra dimostri di ignorarne la vivacità intellettuale e le già presenti aperture verso i teatri “altri” (Balcani, Europa dell’Est, Turchia, Lituania, ma anche Belgio e proprio lo scorso novembre un interessante focus sull’Europa centrale).

Da entrambi i versanti fioccano accuse di narcisismo. Fabre rimprovera alla Grecia di arroccarsi in una chiusura nazionalistica, salvo poi proporre un focus ego-centrato che viene percepito come troppo distante dall’attualità di crisi che il Paese ellenico continua a vivere. «E’ mai possibile che l’unico festival importante del nostro Paese diventi tematico e che per di più il tema sia “cosa significa essere belga oggi?”», protesta invece il giovane regista Dimitris Karantzàs, rifiutando nettamente l’idea di un festival greco reso “succursale della Jan Fabre Foundation” (tospirto.net, 01/04).

Se da un provocatore come Fabre forse ci si poteva aspettare il non rispetto della sacra legge dell’ospitalità, ciò che ha realmente deluso è la sua miopia. Non si può definire altrimenti il suo ritenere la Grecia un Paese da “civilizzare” con esempi di teatro “alto” o con lezioni di multiculturalità, proprio in un momento drammatico come questo in cui il Paese intero sta mostrando al mondo la sua apertura e generosità nell’accoglienza dei migranti e dei profughi, come ha sottolineato la traduttrice e critica teatrale Dimitra Kondylaki (bookpress.gr, 01/04). «Gli artisti greci si sentono umiliati – continua la studiosa – perché Fabre non ha creduto nel teatro greco e non ha voluto conoscerlo. Ciò di cui la “Grecia della cultura” ha bisogno è un Festival che si interroghi sulle pressanti angosce dell’oggi, capace di mettere in luce le nuove dinamiche espressive in fermento e non solo la ripetizione di modelli ed estetiche consolidate».

Fabre non ha sopportato i toni mediterranei e accesi dei suoi ospiti e ha preferito abbandonare questo progetto, in cui forse non ha mai creduto fino in fondo. Ma il Festival alla fine si farà? Pare di sì. Lo ha salvato in extremis Vanghelis Theodoròpoulos, regista di grande esperienza e lungimiranza, che si è preso carico della direzione artistica, garantendo ampia partecipazione greca e internazionale. Ora si attende con trepidazione il programma.

Gilda Tentorio