Conversazione con Daniel Blanga Gubbay
a margine di Uovo, Milano_ 21-25 Marzo.
Da molti anni è stretto e prolifico il rapporto tra Uovo e il gruppo Pathosformel. Non stupisce che siano molti i punti di contatto tra un festival che cerca la “radicalità performativa” e un gruppo che lavora ai confini tra teatro e arte concettuale. Per la decima edizione, Uovo ha affidato a Pathosformel un vero e proprio percorso curatoriale: il progetto Carta Bianca lascia al gruppo la responsabilità di una sezione della programmazione. Così, accanto all’ultimo lavoro – Alcune primavere cadono d’inverno, in collaborazione con il gruppo port-royal – Pathosformel ha introdotto un artista guest, Nick Steur, e presentato un’installazione inedita (Don’t be afraid of the clocks).
I fondatori di Pathosformel – Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani – si distinguono nel variegato panorama dei gruppi ‘radicalmente performativi’ per una solida e convincente preparazione teorica che diviene anima dei loro lavori. Daniel discuterà a giorni una tesi di dottorato e già lo aspetta una borsa post-doc: in tempi di crisi universitaria, non è conferma da poco.
Non a caso, il percorso della compagnia si contraddistingue per metodo e coerenza: dopo una lunga indagine sul mondo inanimato – volta a far emergere in controluce l’umano – ora al centro della ricerca c’è la relazione tra l’uomo e l’oggetto. “Con gli oggetti instauriamo relazioni molto complesse.”, spiega Daniel, “Spesso li teniamo vicini, strettamente connessi al corpo, e poi li abbandoniamo azzerando in un attimo quella stessa relazione”. Da questa riflessione nasce un dittico che (oltre a confermare una predisposizione per i titoli riusciti) segna per Pathosformel un approdo al corpo umano: An Afternoon Love e Alcune primavere cadono d’inverno.
Nel primo, al centro della scena c’è un giocatore di basket che si allena; nel secondo, un ballerino di break dance esegue i suoi passi accanto a un sacchetto mosso dal vento. Filo conduttore tra i due lavori, oltre alla relazione diretta o indiretta con un oggetto, è anche la scelta di due performers non legati al mondo del palco.
“È stato piuttosto difficile trovare le persone adatte. Per An afternoon love abbiamo fatto lunghi provini: si presentavano performers di esperienza che sapevano anche giocare un po’ a basket. Noi invece volevamo qualcuno che non estetizzasse quell’allenamento, qualcuno che con la palla avesse un rapporto reale. Alla fine si è presentato Joseph Kusendila, un giocatore di serie A, e abbiamo capito di aver trovato proprio quello che cercavamo. Nella prima parte del lavoro gli abbiamo chiesto di allenarsi ogni giorno seguendo un tema (paura, rabbia, violenza….), ma senza mai ‘recitare’ e senza uscire dallo schema dell’allenamento. È venuto fuori uno straordinario alfabeto di relazione con l’oggetto.
Anche per Alcune primavere non è stato facile: abbiamo seguito per mesi gli allenamenti delle crew di break dance. Ci siamo accorti presto che è un mondo diffidente e con il quale non è facile entrare in relazione. Prima di trovare Stefano Leone (il danzatore che è andato in scena a Uovo, ndr.) abbiamo fatto tre tentativi. Chiedevamo qualcosa che per loro era inconcepibile: cercare la fragilità nel danzare. Ma la break dance è esibizione delle proprie capacità al meglio: e molti non sono stati disposti a lasciare la loro corazza inespugnabile. Con Stefano è stato da subito molto diverso”.
Se tra pallone e giocatore il legame è costante e stretto come in una storia d’amore, in Alcune primavere la relazione è a distanza: in scena c’è un sacchetto mosso da ventilatori invisibili (sono Daniel e Paola a direzionarli), che vola e si posa, si contrae e si dilata come nell’ultima scena di American Beauty di Mendes. Accanto a lui, il break dancer balla come portato dall’aria: leggero, imprevedibile, capace di attendere senza fretta il tempo che occorre tra un ‘volo’ e l’altro. “Emerge in qualche modo la forma del contest, tipica di quel genere di danza ma completamente decontestualizzata.”, spiega Daniel, “Abbiamo chiesto a Stefano di farsi influenzare dai movimenti del sacchetto e viceversa noi, con i ventilatori, cerchiamo di rispondere al movimento di Stefano”.
Il risultato, in entrambi i casi, è un percorso sottile e arcano, che può lasciare perplesso lo spettatore se non è disposto a entrare nel linguaggio Pathosformel. “Siamo molto consapevoli del rischio”, assicura Daniel con un sorriso. “E accettiamo di buon grado tutta la gamma possibile delle reazioni. Qualche tempo fa, uno spettatore mi ha messo le mani addosso: spintonandomi, mi chiedeva cosa avessi fatto dell’attore e del suo fuoco sacro”.
E quando gli si chiede se Pathosformel ha intenzione di mettersi alla prova con un format più esteso, risponde sornione: “Se il tema di ricerca ce lo richiederà, certo. Ma non è possibile deciderlo a priori”.
Ora il gruppo si è preso una pausa di un anno dalla produzione: per raccogliere le idee e pensare alla prossima indagine.
Maddalena Giovannelli