Napoli, si sa, abbraccia le contraddizioni: multiforme capitale artistica ma, allo stesso tempo, città controversa, recentemente inserita (e poi rimossa) dal “Sun” nell’elenco delle città più pericolose del mondo. Metropoli capace di ospitare nelle stesse settimane un grande evento teatral-istituzionale come il Napoli Teatro Festival ma anche iniziative diverse e altrettanto importanti. È il caso di AltoFest, esperienza nata dalla determinazione di Anna Gesualdi e Giovanni Trono, aka TeatrInGestAzione, che nel 2011 inventano un festival capace di rovesciare le regole. Un esperimento coraggioso: sfidare le sovrastrutture cittadine tessendo una fitta rete di relazioni, con particolare attenzione all’intimità del rapporto umano.

Ma partiamo dall’inizio. Una piccola, variegata e fedelissima comunità di “donatori di spazi”, coltivata in anni di incontri, teatro e caffè, viene coinvolta nella realizzazione logistica della rassegna. I cittadini di Napoli sono chiamati a ospitare nei loro spazi privati (case, cortili, luoghi di lavoro quali uffici, negozi e studi) artisti provenienti da ogni parte del mondo selezionati attraverso un bando internazionale. Per il 2017 agli artisti è stato richiesto di proporre opere già formalizzate, “da riqualificare in stretta relazione con i luoghi del festival, rinunciando a supporti tecnici non compatibili con lo spazio assegnato”. Una ridefinizione non solo logistica, ma poetica: nei cinque giorni di residenza gli artisti hanno vissuto a stretto contatto con il tessuto umano partenopeo, attraverso la relazione biunivoca con i loro ospiti, cercando di far risuonare questa relazione nella propria opera.

Il motto di AltoFest è quindi “dare luogo”, nel senso più pieno del termine: concedere spazio e mettere in atto le singole azioni performative in un continuum di vuoti e pieni. La fase più delicata è assegnare a ciascun artista il proprio ospite e, di conseguenza, lo spazio di riferimento, immaginare quindi la relazione che ne potrebbe nascere e operare delle scelte finalizzate a comporre un unicum che si estende più in profondità e più a lungo dei cinque giorni di kermesse. Questa “opera-sistema” diffusa comprende anche il movimento tra una sede di spettacolo e l’altra, in un viavai di spettatori alla scoperta di luoghi sconosciuti agli stessi napoletani veraci: parcheggi in cave di tufo, acquedotti romani recentemente portati alla luce grazie all’opera di associazioni locali, appartamenti privati, palazzi storici in stato di abbandono, studi di architettura. La partecipazione è elastica, a tratti disordinata, figlia di quella gratuità che caratterizza tutti gli appuntamenti. Dopo sette anni di esistenza, AltoFest è ancora – ed è facile immaginare che forse rimarrà sempre – in una fase di metamorfosi e ricerca. Una dimensione sui generis che richiede alcune riflessioni a margine.

Per prima cosa è interessante constatare come l’atto di ridefinizione dell’opera artistica rappresenti il cuore della relazione tra ospite e ospitato / cittadino e teatrante: un rapporto che talvolta viene correttamente interpretato da entrambe le parti in causa, talvolta meno. In questo si annida il potenziale stesso della linea poetica scelta da Gesualdo e Trono: l’opera che viene rappresentata al termine del periodo di residenza si fa portatrice non solo del messaggio che l’artista ha scelto di comunicare, ma anche di un’effettiva interazione umana. In secondo luogo, sfidando la capacità di adattamento di opera e artista, AltoFest ridefinisce anche (ma non solo) i confini dello sguardo critico. È ‘più riuscito’ teatralmente un lavoro che mantiene invariata la propria identità o un momento di spettacolo site specific impossibile da replicare al di fuori del complesso spazio-temporale di Napoli?

Il pubblico ad AltoFest non sarà mai un concetto astratto: lo spettatore viene infatti da subito inserito in una vera e propria comunità. Un atto di inclusione che genera uno scarto dalla dinamica di ricezione spettacolare ‘classica’, portando ad annullare le distanze tra “coloro che agiscono”, “coloro che guardano agire” e “coloro che accolgono l’agire”. Tale linea poetica, in termini astratti apprezzabilissima, comporta però (concretamente) una certa difficoltà di visione, con lo sguardo impossibilitato a riconoscere dove finisce l’atto umano e dove inizia quello artistico. Eppure la vera forza di AltoFest risiede proprio in questa sostanziale ma non incondizionata sovrapposizione.

Chiara Marsilli

 

Altofest 2017
Visto a Napoli (varie sedi)_ 5-7 luglio 2017