regia di Paolo Poli
visto all’Elfo Puccini di Milano_ 18 Dicembre-13 Gennaio
L’Elfo Puccini è pieno, non ci sono sedie libere. Il pubblico applaude, affettuosamente, forse applaude troppo spesso, disturbando lo spettacolo che il vecchio Paolo Poli (83 anni, ancora sorprendentemente agile) ha dedicato a Giovanni Pascoli (stroncato dalla cirrosi a soli 57 anni, nel 1912).
Non era facile impresa quella di ricostruire il ritmo, la metrica e la poetica pascoliana in una rappresentazione di 120 minuti; è riuscita solo in parte, ma il risultato complessivo rimane pur sempre di piacevole visione ed ascolto. Il titolo evoca L’aquilone con un delicato richiamo dell’infanzia (“or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino ventoso” ove il poeta studiava con i fratelli in collegio); e l’attore ci conduce da par suo dentro l’infanzia, desiderata e svanita (“sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all’improvviso, una dolce, una acuta, una velata”). È la vena crepuscolare che tanta influenza ha poi avuto (nello stile e nei contenuti dell’ispirazione) sulla poesia italiana del secolo scorso, quella di Montale particolarmente (Myricae ed Ossi di seppia; la rima interna al verso; la ricerca di parole non usuali e musicali insieme). La scelta di Paolo Poli è stata quella, per lui consueta, di navigare, fra il divertito e lo scanzonato, lungo la costa della letteratura italiana novecentesca; dunque cogliendo la retorica prevalente sul tema popolare, l’egocentrismo vera radice di un preteso ermetismo, soprattutto l’estetismo. Pascoli seppe inserirsi appieno nel clima del Liberty costituito intorno ad Adolfo De Bosis, determinante per il sorgere del fenomeno D’Annunzio.
Le scene e i costumi sono in totale consonanza con il taglio dello spettacolo; Emanuele Luzzati è come al solito perfetto nella costruzione delle scene, ma anche i costumi elaborati da Santuzza Calì suscitano l’ammirazione degli spettatori, per l’ironia davvero fantasiosa che li contraddistingue. Sullo sfondo, ma con voluta superficialità, le canzoni ricordano la biografia del poeta: Addio a Lugano per i cento giorni di carcere nel 1879 e Tripoli per il nazionalismo senile. E se ci siamo divertiti ascoltando Italy (formidabili le rese di bisini per il business o ancora scrima per il gelato, ice cream) o La morte del papa (Leone XIII) non possiamo nascondere il dispiacere per l’omissione di alcuni pezzi celebri che già pregustavamo coloriti in stile Poli (sul genere di La nemica): pensiamo alla Cavallina storna, a Romagna, soprattutto a La voce con mamma che “pian piano” appare in prigione al Pascoli, anarchico e rinchiuso, e ammonisce il suo Zvanì (“Oh! La vita mia che ti diedi per loro lasciarla vuoi qui?”). Va bene ugualmente: accontentiamoci di un Valentino che da solo vale il biglietto d’ingresso. Benedetto Croce trovava “insopportabile” il componimento, ma perfino al bizzoso filosofo napoletano sarebbe sfuggito un sorriso se avesse assistito allo spettacolo.
Harry K. Richmond