Regia di Luca Ronconi
di Michel Garneau da La Celestina di Fernando de Rojas
visto al Piccolo Teatro Strehler_ 30 Gennaio – 1 Marzo 2014

Calisto spia voluttuoso, dall’alto di una scala, Melibea che, nuda, a terra, sembrerebbe prendere il sole in giardino, se non fosse che al suo capezzale il padre ne piange sconsolato la morte prematura.
Ronconi, sin dall’incipit del suo lungo spettacolo, cerca di immortalare l’anima dissonante dell’opera di Fernando de Rojas, saldandone insieme l’inizio e la fine in un’unica immagine di maliziosa equivocità. Già in questa prima scena, la dialettica tra alto e basso, tra sublime e sconcio, prende prepotentemente il centro del palco, rivelandosi tema principale della trattazione ronconiana. Se Celestina è la commedia delle visite e delle contro visite, oltreché degli incontri e dei convegni d’amore, quello che si vuole raccontare, sottolinea il regista, è un amore carnale, fisico, che ha più a che fare con la pulsione sessuale che con l’etereo mondo dei sentimenti. Del resto, la Celestina che dà titolo all’opera è una vecchia prostituta chiamata a curare, sotto lauto compenso, le pene d’amore del giovane Calisto con qualsiasi mezzo, siano filtri, pozioni o sortilegi. Si tratta di un mondo in decomposizione, avvezzo al degrado e al vizio, divinità di cui Celestina è al contempo vestale e vittima sacrificale.

Il progressivo smottamento della vicenda verso un gorgo di abiezione umana, viene tradotto visivamente nella pedana inclinata su cui gli attori si muovono e nell’evoluzione dell’uso delle numerose porte che costituiscono il secondo elemento preponderante della suggestiva scenografia firmata da Marco Rossi. Nel corso dello spettacolo si passa infatti da un utilizzo verticale (le porte emergono come funghi dal terreno a disegnare la scena) a uno quasi esclusivamente orizzontale (le porte si aprono come botole) quasi a voler accentuare una visione dal basso in una sorta di insistita ʻprospettiva infernaleʼ.

L’edizione di Ronconi, che si avvale dell’adattamento del canadese Michel Garneau, tutto sembra tranne che propensa a cercare l’essenziale, a spremere il succo di quest’opera sfuggente, apparentemente irriducibile, polisemica: anticipatrice da una parte della parodia donchisciottesca sul mondo cortese e delle trame del futuro teatro elisabettiano, strizza l’occhio, dall’altra, al passato dei classici latini, a cominciare dalle commedie plautine.
In controtendenza rispetto al processo di semplificazione che ha segnato il suo titolo infatti, Celestina (che fu La Celestina e prima ancora Tragicomedia de Calisto y Melibea) nella veste ronconiana sembra accogliere solo parzialmente gli accorgimenti teorizzati da Carlo Emilio Gadda da cui il regista afferma di aver preso le mosse per il suo lavoro.
Nel 1945 l’autore del Pasticciaccio avvertiva che rappresentare la Celestina sul teatro moderno comporta anzitutto sfrondare la lungaggine del testo e stringere in più raccolto gomitolo (in più sobrie architetture) quella matassa di andirivieni e visite che infoltisce la trama di tutte le erbacce dell’espediente. E che la trascrizione per la scena dovrebbe appoggiarsi a un ben definito tipo di parlata corrente: la frase va spezzata, e articolata su moduli reali.

Configurandosi come un classico ronconiano, Celestina si serve invece di tutto il consueto prontuario del regista a cominciare dall’uso di un eloquio straniante, artificioso. Accentuando questa modulazione magmatica, implacabilmente referenziale, Ronconi si allontana e dall’efficace concisione e dalla naturalezza antiretorica raggiunta ne Il panico di Spregelburd, mettendo a rischio perfino la bravura dei suoi interpreti. Rimandi testuali prima che personaggi, ingranaggi di una macchina-spettacolo ammirevole nella sua compattezza ma soffocante, gli attori si vedono costretti a reagire per non rimanerne stritolati. Non tutti ci riescono. Lo fanno molto bene Maria Paiato e Paolo Pierobon che scardinano dall’interno il giogo della cadenza piegandolo alla propria capacità espressiva e offrono al pubblico i momenti più appaganti dello spettacolo. Senza di loro il fascino di questa Celestina, benché sorretto da un’indiscutibile qualità tecnica, risulterebbe più opaco, afflitto, sia nelle parti comiche che in quelle tragiche, da un certo manierismo, che ne ridimensiona la grazia e la capacità di veicolare sullo spettatore riflessione ed emotività.

Corrado Rovida