Sarah Vanhee ci accoglie già seduta su una sedia al centro dello spazio scenico, mentre noi prendiamo posto; ha un computer a fianco a sé e un proiettore che illumina il fondale, rendendo difficile per lo spettatore immaginare quale performance avrà luogo. Quando inizia a parlare, Vanhee ci spiega che avrebbe condiviso con noi, sotto forma di conferenza, la sua ricerca, nata dal bisogno di costruire un’antologia sull’urlo, esplorandone i diversi significati e i contesti in cui si inserisce.

La performer ha lavorato a lungo sulla sua voce e sulla percezione acustica, quindi conosce l’importanza di abituare l’orecchio a volumi più alti: dopo aver preso fiato lacera il silenzio con due urla, la prima delle quali apparentemente naturale e l’altra così profonda e ampia da risultare strana. Ci avverte poi che avremmo sentito diverse altre urla durante la performance, questa volta registrate, e ci rassicura sulla possibilità di tapparci le orecchie se il suono supera la nostra soglia di accettabilità; infine inizia a guidarci in questo viaggio attraverso il grido, considerato da un punto di vista fenomenico.

Gridare è un’azione che colpisce prima di tutto i nostri centri emozionali, andando a toccare o a sviscerare qualcosa di estremamente intimo. Non si può imitare il grido di un’altra persona, per questo, dice Vanhee, è un’azione unica e singolare come un’impronta digitale. Sembra talmente banale: come leggiamo nel programma di sala, si tratta di «aprire la bocca e far uscire dei suoni da un buco al centro del nostro viso», eppure è una manifestazione di esistenza potente attraverso la quale esprimere la nostra forza, così come la nostra vulnerabilità. La performer ha integrato l’osservazione del fenomeno con le sue conoscenze e competenze riguardo la voce, studiandone la materialità, il timbro e l’utilizzo nell’atto di gridare. E proprio questa osservazione apre, prima di ogni altra, una riflessione sull’identità di genere e sulla sua espressione, per la quale si è soliti associare l’incontinenza verbale e vocale alla donna, mentre la misura verbale all’uomo. La proiezione video di una folla di donne che gridano ad un concerto pop, sembrando un’unica voce tutta sfaccettata, ci fa transitare invece verso le situazioni in cui urlare è socialmente accettato e, anzi, parte del codice vigente in determinati luoghi e contesti, come nel caso della musica pop live. 

Abbracciando una prospettiva artistica, osserviamo in alcune proiezioni video prima le rappresentazioni dell’urlo in pittura, poi le sue più celebri interpretazioni cinematografiche, ne ascoltiamo i racconti letterari e ne ripercorriamo i vari utilizzi nella pratica teatrale o nella musica. Vanhee ci dona una riflessione sull’urlo anche in ambito sportivo, facendoci ascoltare grida e cori di tifosi, ma anche giocatrici di tennis che urlano a ogni battuta. Ci si chiede quindi da dove provenga la convenzione, socialmente accettata, per la quale gridare e urlare sia sempre sbagliato. Forse per evitare di peggiorare l’inquinamento acustico delle nostre città? Forse perché siamo soliti associare il grido all’infanzia? 

Eppure noi urliamo anche per rivendicare la nostra identità, come nel progetto I screamed and I screamed and I screamed: una conferenza/performance curata da Vanhee nel 2013, che ha riunito all’esterno delle mura del carcere belga di Malines alcuni cittadini, invitati ad ascoltare le grida dei detenuti, lanciate oltre le barriere di mattoni come memento della propria vita, della propria esistenza in quanto persone. Noi urliamo quando proviamo piacere, quando facciamo sesso. Urliamo per chiamare qualcuno, per comunicare meglio e farci sentire. Gridiamo di dolore e liberazione quando diamo alla luce un figlio e il neonato urla riempiendo i polmoni d’aria. E, infine, urliamo per proteggerci, per difenderci, per attirare l’attenzione e chiedere aiuto. 

Sarah Vanhee chiude la riflessione sulle urla che non sono state compiute, che non sono state gridate. Ci invita a chiederci perché in una data situazione, anche se avremmo potuto o avremmo dovuto, non abbiamo gridato. Urlare ci appartiene come diritto, ci cura, ci aiuta, ci mette in contatto, esprime ciò che siamo e quello che proviamo. Come afferma più volte la performer «meritiamo di urlare».

Ancora con la pelle d’oca e le impressioni acustiche nelle orecchie, il pubblico si scopre non solo ad applaudire entusiasta, ma anche a gridare, raccogliendo l’invito e l’augurio di Sarah Vanhee di trovare un luogo e un momento personale per godersi quell’appagante sensazione di libertà.

Shahrzad M.

foto di copertina: Martina Rosa

COLLECTED SCREAMS
performance e testo Sarah Vanhee
prodotto da Manyone
grazie a Britt Hatzius, Xiri Tara Noir, Flore Herman, Isabel de Naveran


Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le alleanze