Il sipario del teatro LAC di Lugano si apre le sere del 22 e del 23 novembre 2022 ospitando uno spettacolo pasoliniano diretto da Fabio Condemi, regista premio Ubu 2021. Il Calderòn è un’opera che ci fa riflettere sul tema della libertà umana e di come essa possa venire limitata, punita dal potere istituzionale.
Non deve essere stato facile per un regista contemporaneo confrontarsi con uno dei più importanti pensatori del Novecento, Pier Paolo Pasolini: il Calderòn lasciò il segno quando venne pubblicato nel 1973. Diviso in tre stasimi e sedici episodi, la drammaturgia è ambientata nella Spagna franchista durante gli anni del regime e non fa altro che amplificare l’inquietudine di quei tempi controversi. Il sogno, l’incesto, il sospetto, ad esempio, sono solo tre degli aspetti che animano la trama. Tale contesto è subito svelato dallo speaker a inizio spettacolo, attraverso un dialogo diretto e immediato con lo spettatore: perché rompere la quarta parete in modo così sorprendente? Il primo contatto con il pubblico pone lo spettatore sull’attenti, perché quello che andrà in scena ci riguarda più di quanto immaginiamo.
Nel primo episodio di Calderòn l’atmosfera è buia, cupa, con un letto al centro della scena. Emergono le voci delle due sorelle Rosaura e Stella: la prima ha perso la memoria, così la seconda, dopo vari tentativi di riportarle alla mente il passato, rinuncia in questo intento e le suggerisce di vivere senza ricordare, affinché i tasselli della sua vita precedente possano venire a galla lentamente. Il secondo episodio si apre con una donna che fa visita alla madre delle due giovani, Dona Astea, per assicurarsi della buona condizione di salute di Rosaura, ma quando le due iniziano a dialogare emerge in Dona Astea il ricordo di un episodio: una relazione violenta con il padre di Rosaura. Lo speaker interrompe la scena e introduce il secondo stasimo, nel quale annuncia la rappresentazione da parte degli attori del quadro Las Meninas di Diego Velázquez: perché proprio quel dipinto? La risposta è nello scambio di un anello di famiglia tra le due giovani, lo stesso raffigurato nel dipinto. Suggestivo è sicuramente il tableau vivant costruito dagli attori in scena: un’opera nell’opera, un esempio di mise en abyme in cui non c’è più un confine piani di finzione, nonostante la cornice che avvolge il dipinto non sia più quella d’oro seicentesca ma quella del sipario. Intorno a questa raffigurazione nascono diverse riflessioni: particolarmente suggestivo, ad esempio, è il momento in cui uno degli attori esce dalla finta tela, ma resta comunque all’interno dell’opera teatrale. Non è un caso che gli attori “dipinti” parlano dell’amore, il tema che richiama l’anello di famiglia dato dalla sorella Stella a Rosaura, simbolo di fedeltà, ovvero di quello stesso valore che non è stato rispettato da Dona Astea: il vero amore pare realizzarsi solo quando rientra perfettamente nella morale borghese. Il sipario si chiude per riaprirsi su un’altra scena, quella di un manicomio dove si trova ricoverata Rosaura: per quale motivo si trova tra quelle mura? La sua amnesia l’ha portata ad amare Sigismondo, senza sapere che fosse sangue del suo sangue. Nonostante il padre le abbia rivelato la sua vera identità, la ragazza continua a portare avanti il proprio amore incestuoso, senza curarsi delle conseguenze di quel suo sentimento anticonvenzionale. In questo senso, la scena del nudo è una provocazione verso un amore impossibile, come un atto di ribellione verso quella società borghese che la vuole rinchiusa in un manicomio. Lo stesso nudo apre la scena successiva, introducendo un contesto in netta antitesi con quello precedente: Rosaura si risveglia nel medesimo modo del primo episodio, ma accanto a lei trova la sorella Carmen. Quest’ultima le racconta che esse si prostituiscono in un bordello ed è interessante notare come Carmen non le porge l’anello come nel primo caso ma una bacinella utilizzata dalle prostitute per pulirsi. Proprio nel bordello ha luogo un altro episodio incestuoso: qui il protagonista maschile non è più il padre ma il fratello sedicenne Pablo che viene condotto, in occasione del suo compleanno, dalla prostituta Rosaura. Pablo non si sente a suo agio in quel luogo così tenta la fuga, ma Rosaura se ne innamora e solo dopo la sua fuga le viene fatto capire che quello è suo fratello. A questo punto arriva un altro svelamento incestuoso da parte di un prete che è andato a far visita a Rosaura: Pablo è suo figlio, avuto dopo una violenza ad opera di Sigismondo. Dopo aver palesato il secondo momento impuro, ecco che se ne riapre un terzo: Rosaura si sveglia e accanto a lei trova la sorella Agostina. La guarigione di Rosaura sembra lontana, tanto che è stato necessario fare una riunione presieduta da Basilio e Manuel (il primo si scoprirà essere il marito di Rosaura, mentre il secondo è il capo del manicomio): i due discutono sulla forza che il potere esercita sugli uomini ed è proprio questo argomento che pare muovere tutto il testo pasoliniano, ovvero l’impossibilità umana di svincolarsi dalla propria condizione sociale. Basilio incarna pienamente l’uomo al servizio del potere e ciò è ben visibile nella parte conclusiva dell’opera, in cui c’è un terzo ed ultimo amore tra Rosaura ed Enrique. Basilio si preoccupa di denunciare alle autorità Basilio, perché questo amore non è presente nella cornice borghese dipinta da Velazquez. A questo punto si apre il terzo ed ultimo stasimo: lo speaker introduce l’atmosfera di un lager. L’immagine è l’apice di un pensiero avverso alla borghesia e in continua ricerca di libertà. Quando Rosaura si risveglia per l’ultima volta, essa non è più in un sogno ma si ritrova catapultata in un luogo oscuro e violento: nemmeno il suo grido di speranza sarà in grado di salvarla.
Condemi è riuscito a restituire la provocazione pasoliniana soprattutto attraverso un’attenzione al dettaglio scenografico. Ogni oggetto di scena è posto sul palco con un senso, funzionale all’uso dell’attore, nessun elemento è lasciato al caso, ma la componente strutturale dialoga con gli attori e con le loro parole. Il pubblico attento si è potuto accorgere di come gli attori si siano disposti sulla scena creando questa simmetria. Ciò si verifica per esempio quando nel secondo episodio Dona Astea è seduta su una sedia, la figlia Rosaura è in piedi e l’amica di famiglia è chinata a terra: l’occhio percepisce una linearità graduale e gerarchica, un gioco sottile che denota un’attenzione particolare al dettaglio compositivo. Altrettanto importante è il ruolo complesso degli attori: l’attrice scelta per Rosaura doveva interpretare più ruoli all’interno di uno stesso spettacolo e soprattutto esprimere la dinamica del sogno, qualcosa di cui non si ha piena coscienza. Lo stesso personaggio di Rosaura è in un certo senso un’attrice che interpreta la propria vita, che si misura sempre con la finzione: un doppio piano in cui il pubblico viene immerso. Si può parlare di una protagonista o di più protagoniste? A questa risposta possiamo rispondere soffermiamoci sul dettaglio dell’urlo finale, interpretandolo come la battuta di una Rosaura che non è più immersa nei propri sogni. Questo personaggio scisso per tutto lo spettacolo pare esaurirsi alla fine, rivelandosi un’attrice sola, che non recita più per se stessa ma per il pubblico.
Nel Calderòn il tema dell’eresia è fortemente rappresentato. Essa rimane nel suo senso storico qualcosa che sovverte la verità “rivelata” e questa infrazione è assurda agli occhi di un ordine ecclesiastico o precostituito, perciò non la tollera e la punisce. Le continue azioni di Rosaura verso il padre, il fratello sono condannabili perché le viene rivelata una verità ordinatrice e, nonostante ciò, lei persegue i propri sentimenti. Ecco allora che la società la condanna ad un destino in trappola. Una borghesia troppo attenta ai valori dogmatici, che non lascia l’uomo libero di fare le sue scelte, domina in una società che opprime e condanna. La vita stessa diventa un manicomio.
Lisa Riva
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica