Fabio Condemi firma la regia del Calderón, in scena al LAC il 22 e il 23 novembre, trovando un delicato equilibrio tra aderenza alla tradizione filologica e rilettura del testo pasoliniano. La chiave barocca e il grande tema del segreto ad essa connessa — secondo un raffinato gioco di celamenti e svelamenti — permette allo spettatore di riflettere non solo sulle ragioni profonde dell’opera pasoliniana ma anche sull’uomo Pasolini.
Ambientato nella Spagna franchista, Calderón racconta la vicenda di Rosaura — interpretata qui dal trio Matilde Bernardi, Carolina Ellero, Giulia Salvarani — giovane donna, poi madre, poi moglie, immersa consecutivamente in tre sogni, ricoprendo volta per volta un ruolo sociale ben distinto: aristocratica, proletaria, piccolo borghese. Non a caso lo spettacolo sottolinea sagacemente due tratti essenziali affrontati da Pasolini nel testo: il rapporto individuale con le pulsioni dell’inconscio — di cui il sogno è massima espressione — e il rapporto con il potere, indagato nelle sue peculiari declinazioni.
Osservando la costruzione degli interni, Condemi si muove tra rispecchiamenti e ingabbiamenti: gli uni necessari a rendere palpabile la pura natura dell’individuo – cos’è l’inconscio se non il riflesso di noi stessi? -, gli altri capaci di esprimere il senso di costrizione sociale, psicologica e morale che l’uomo subisce sin dalla nascita. Una serie di appuntamenti scenografici scandisce questa dialettica costante.
Nel primo risveglio, Rosaura si trova a far parte di una famiglia aristocratica: l’ambiente domestico è costituito da pareti trasparenti, attraverso cui è possibile osservare ciò che altrimenti sarebbe occultato e che tuttavia sembra non svelarsi totalmente.
Ancora, nell’episodio che ricalca Las Meninas di Velazquez, i personaggi — diventati personificazioni in posa — sono incorniciati da una griglia prospettica. Le figure esortano Rosaura a dichiarare l’intimo sentimento che prova per Sigismondo — che poi si rivelerà essere suo padre biologico —, al di là di ogni convenzione morale.
Nel secondo risveglio, la protagonista è una prostituta dei bassi borghi: il bordello in cui si desta è reso nello spazio scenico da una gabbia, matrice fondamentale del potere; per la terza volta un’intelaiatura concentra gli occhi dello spettatore sul fulcro della scena, crea dei confini che sembrano chiedere di essere superati.
Nell’ultimo risveglio, quando la speranza di una liberazione da parte del popolo si estingue, questi moduli vengono meno: la porta scompare, nessun incorniciamento è presente, tutto è statico (attori, luci, oggetti, movimenti) e tutto è già pronto sulla scena, come se nulla potesse scorrere ancora in avanti cronologicamente, come se la storia si fosse fermata in quel punto, a manifestare in tutto la tragedia: questo ultimo sogno non sarà mai realtà; eppure, tutto lo spettacolo fa sognare.
Cattura sulla scena infine l’uso della porta di Marcel Duchamp, contemporaneamente aperta e chiusa, espressione della dinamicità di Pasolini – “a canone sospeso” – e che incentiva il continuo passaggio di prospettive, tra sogno e realtà, tra finzione mentale e pragma.
Così, come sorte di scatole dentro la grande scatola del palcoscenico, inconscio e conscio, potere e individuo — in continuo rapporto tra loro — sono esposti, resi evidenti dal sogno, luogo privilegiato di un dibattito che non ammette preconcetti o imposizioni.
L’ineluttabile stato in cui l’essere umano è costretto dal Potere — che qui è Basilio, impersonato dall’attore Michele di Mauro — diventa particolarmente evocativo nella scena del nudo di Rosaura: mentre si spoglia davanti a Sigismondo e gli rivela quello che prova per lui, esposta nella sua profonda fragilità, spicca, su un panno che fa da sfondo, una citazione diretta di La vida es sueño di Pedro Calderón de la Barca: «il delitto peggiore per l’uomo è quello di essere nato». In modo analogo in uno degli articoli raccolto in Descrizioni di descrizioni (1975), Pasolini aveva definito la genesi della condizione umana: «Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna.»
Il concetto di potere, in Pasolini-Condemi, è così ampio da comprendere lo stesso drammaturgo, che vediamo entrare in scena nei panni dello speaker, accanto ai personaggi del tableau vivant velazqueziano. Interpretato da un eccelso Marco Cavalcoli, entrato a inizio spettacolo ad anticipare e a commentare con il pubblico gli avvenimenti, nel finale lo speaker si ritrova egli stesso, e dunque la stessa autorialità, intrappolato nella rappresentazione. Se non lo abbiamo ancora capito, la finzione del teatro, una volta rivelata, si estende già oltre i confini del palco, invade la realtà.
Patrizia Costa
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica