Il Thomas Bernhard dei due spettacoli visti recentemente a Milano (Minettidi Roberto Andò con Roberto Herlitzka al Piccolo Teatro Grassi e L’apparenza inganna di Roberto Trifirò all’OutOff) richiama alla mente l’indimenticata mostra Artaud. Volti / Labirinti (al PAC di Milano tra il dicembre e il febbraio 2005-2006) e parti di Il teatro e il suo doppio (Torino, Enaudi, 1968), introdotte delle belle pagine di Jacques Derrida (Le théâtre de la cruauté). Un filo essenziale, quello che Bernhard stesso tende in relazione ad Artaud e che si dipana in varie direzioni, tra cui quella che porta alla lucida ostilità da parte del drammaturgo austriaco nei confronti del ‘classico’.

È proprio in Minetti. Ritratto di un artista da vecchio cheBernhard sosteneva che nel ‘qui e ora’ (tempo proprio del teatro e della sua riflessione critica sul presente) il teatro deve tornare a svolgere la funzione di “scavare e meditare senza tregua / alla ricerca della sostanza spirituale / dell’opera d’arte … / con la sostanza spirituale / contro il pattume spirituale / con l’opera d’arte / contro la società / contro l’ottusità”. Questo fine porta l’attore non omologato e ideale di Thomas Bernhard, Minetti, a negarsi consapevolmente alla letteratura classica: “Una mente di attore come nessun altra / Simulazione / nient’altro che simulazione / … trent’anni bambina mia / durante i quali ho studiato tutta la letteratura classica / tanto che alla fine ho saputo / perché mi ero negata a essa / il Lear sí / ma tutto il resto della letteratura classica no”. Minetti sceglie il Lear, sempre, solo, ancor più al margine della vita, per una consonante volontà di precipitare “nella pazzia / incondizionatamente / facendone il proprio metodo” perché “un artista è un autentico artista soltanto / quando è completamente pazzo” e attua la propria rivolta contro l’insensatezza umana, il pubblico, la verità del personaggio ideata dal drammaturgo. Recitare non è mimetica restituzione di questa verità da parte dell’attore, ma è atto di trasformazione e mutuo annientamento attore-scrittore: “L’attore si accosta allo scrittore / e lo scrittore distrugge l’attore / esattamente come l’attore distrugge lo scrittore”, anzitutto con il proprio corpo.

In questo luogo fisico e inalienabile del teatro si consuma la sfida, non immune da cortocircuiti, tra la parola del drammaturgo, il personaggio (Lear e la sua la maschera) e l’attore, che deve essere disposto alla ribellione e a dare una prova di teatro non confortante. Il Minetti-attore è anche il Minetti personaggio, che a sua volta è il personaggio senza corpo, cui resta solo una maschera, di un Lear che non sarà mai rappresentato. Questa paradossale convergenza di attore e personaggio radicalizza, e di fatto non ammette, il concetto di interpretazione. Quale attore oggi può dare corpo in modo convincente a tale genere di ‘assurdo’, a Minetti?

La scelta di Roberto Andò di affidare questo ruolo ‘doppio’ a Roberto Herlitzka è stata vincente, non solo per la familiarità di Herlitzka con Bernhard (GeloIl soccombente), ma anche perché l’attore torinese è emblema di un teatro ‘altro’ rispetto a quello di facile consumo e intrattenimento, proprio come Minetti e come Bernhard intendeva dovesse essere un attore. E poi perché Herlitzka possiede compiutamente le migliori qualità del mestiere, a cominciare dalla padronanza della tecnica, da padroneggiare per essere usata e annullata, secondo l’insegnamento del suo maestro Orazio Costa.

Nel suo Minetti, irriverente, crudo, tragicomico, struggente, Herlitzka offre una superlativa prova d’attore: la sua entrata in scena nella hall di un vecchio albergo di Ostenda per incontrare nella notte di San Silvestro un direttore di teatro è il vero inizio dello spettacolo. La sua attesa del direttore che gli farà interpretare il Lear, dopo un lungo e coatto esilio dalle scene, ha la forza di dilatare la condizione di attesa vissuta anche dagli altri avventori dell’hotel, fra ossessioni e maschere. Quella da scimmia, tenuta da una donna stancamente sopra le righe (Roberta Sferzi), si rivela vuota nella sua esibita finzione e adatta solo per una notte di festa, ancor più nel momento in cui scatta l’implicito confronto con la maschera, onnipresente e definitiva, del Lear. Herlitzka riesce a farla sentire come segno dell’assillante ricerca di identità (“La maschera è Lear”), come strumento per l’ineluttabile precipitare nell’abisso della follia e, non da ultimo, come dissacrante contestazione, specchio spietato che riflette la beffa di chi la indossa e il disgusto di chi la osserva.

Questi caratteri giungono alla maschera anche grazie al suo essere opera di James Ensor, il celebre pittore belga noto per le sue figure portatrici di inquietanti dissolvenze di senso, immagini di un’umanità vacua, ottusa, illogica – la stessa avversata da Bernahrd. “La maschera / La maschera di Ensor / La maschera di Lear / che mi ha fatto Ensor”, un reiterato binomio al quale Herlitzka dà il tono perfetto dell’ossessione di una vita fatta di opposizioni ed eccessi, di spinte esaltanti e divoranti, di quell’ossessione che è però fondamentale per permettere al Minetti-attore di svelare con sguardo critico verità non addomesticate. La sua sarà l’ultima maschera ad apparire in scena, diversa da tutte in Bernhard e nella messa in scena di Andò, il quale la fa risaltare in particolar modo da quelle che (quasi citando Intrigue) sono indossate da personaggi che attraversano il palco con movimenti tanto febbrili quanto inconsistenti, creando così anche un efficace controcanto alla consapevole e densa staticità di Herlizka.

“La musica mi piace / molto”. Sulla battuta finale di Minetti, il fondale con la porta dell’hotel si solleva, la tempesta irrompe, Minetti apre la valigia, custode del suo vissuto d’artista con il quale Herlitzka aveva intrattenuto – disteso accanto ad essa o muovendovi la mano, al suono del pianoforte in scena –  un intimo dialogo muto, tra i momenti più alti dello spettacolo. Andò dà altre parole e gesti all’epilogo di Minetti: “Lear” e il gesto di indossare la maschera di Ensor, che diventa l’ultimo volto di Minetti. In questo modo il regista fissa l’inevitabile precipitare di attore e personaggio nell’abisso della tempesta, simbolo di una raggelante realtà dalla quale non c’è scampo. La variazione su Bernhard, però, si sarebbe dovuta fermare a questo momento di piena sintesi della vita da artista dell’attore che, negandosi all’arte classica, non può che dissolversi. La conclusione dello spettacolo con il passaggio di figure in maschera e la battuta di scherno a Minetti, “l’artista drammatico”, infatti alterano inutilmente l’immobilità di Herlitzka, risucchiata nella fissità della maschera di Lear, e la sua solitudine, condizione intrinseca e inevitabile dell’attore-artista ‘contro’.

La solitudine attraversa e si fa doppia anche in L’apparenza inganna, in scena all’Out Off con l’eccellente regia di Roberto Trifirò. Essa appartiene ai due protagonisti: Karl, ex giocoliere con un apprendistato da illusionista e un irrealizzato destino da filosofo, e al fratello Robert, ex attore assillato dal Lear  (un “idiota” che, come tutti gli attori, privi di “fantasia” e con le “teste disgustosamente vuote”, tenta di “sfuggire alla mediocrità” per ripiombarvi). Karl e Robert, egregiamente interpretati da Trifirò e Giovanni Battaglia, sono “relitti” che si misurano con ossessioni e irrisolti fallimenti di un passato che inciampa in un assurdo presente, sono reietti bloccati in un tempo remoto, riflesso nei vecchi oggetti che abitano le loro case. Le loro sono esistenze di solitudine, fatte di reciproche attese e di incontri sarcastici, accidentali, anche se  talvolta desiderati. Gli oggetti, dall’interminabile fila di scarpe di Karl alle pile di libri alla foto di Minetti, rendono visibili – nelle impeccabili scene di Veronica Lattuada e di Giacomo Viganò – gli assilli che si annidano nei pensieri dei due fratelli e che tentano di dialogare, spesso inutilmente, con le manie dei gesti, delle parole e della musica.

Alla musica, molto e in vario modo presente nella pièceTrifirò sa restituiredrammaturgicamente i significati e la centralità che il drammaturgo austriaco –  anche musicista e musicologo – le conferiva in ogni sua opera (per approfondire si consiglia Thomas Bernhard e la musica a cura di Luigi Reitani, Roma, Carocci, 2006). Tra i momenti migliori, vi sono quelli in cui Karl, accanto alla finestra della sua stanza, in piedi o sprofondato in una poltrona, “abita” la musica, separandosi dal pubblico ma determinando con esso, paradossalmente, l’unico avvicinamento possibile. Montand, Mozart, Cilea, Lou Reed entrano ne L’apparenza inganna, nello spazio scenico e nei protagonisti (“la recitazione è musicale”, dice Karl) a poco a poco, diventando però via via sempre più necessari, anche grazie alla funzione, sapientemente dialogica e mai didascalica, delle luci (Alessandro Tinelli). Queste ultime sono particolarmente rilevanti nelle figure geometriche, vale a dire matematiche e musicali, che Karl-Trifirò crea attraverso i movimenti delle sedie, la loro collocazione nello spazio. Lo spazio è infatti per Karl ‘geometria’ e dunque metafora di un preciso modo di essere nel mondo e di comprenderlo: “Quando viene”, Robert “non si siede sulla sedia / che gli offro / prende l’altra / la sposta / Se non abbiamo nessun rapporto con la geometria / non possiamo capire il mondo”. Le geometrie in scena, fatte di sedie e tavoli, sono le geometrie della relazione tra i fratelli, che non di rado si affrontano come schermidori ai due lati del tavolo in casa di Karl.

A vincere è però la geometria del punto, dell’immobilità. Karl e Robert nell’epilogo sono fissi nelle loro sedie e nelle loro parole, ossessivamente reiterate con minime variazioni (alla Bernhard) senza nessuna apertura o concessione al mondo, a cominciare dal pubblico, sempre escluso durante lo spettacolo dallo sguardo di Karl-Trifirò. Edotto dal padre “illusionista”, suo “unico maestro”, “ad ascoltare / e a vedere / per capire”, come potrebbe esserci alcuna comprensione, quale movimento sarebbe possibile verso uomini che “non hanno orecchi / per sentire / non hanno occhi / per vedere / non hanno raziocinio”? Prendiamone atto: “Viviamo in una società / completamente irrazionale”, anestetizzata, inebetita.

Raffaella Viccei