di Luigi Pirandello
Regia di Alberto Oliva
visto al Teatro Litta _ 21 gennaio-16 febbraio 2014
Non è semplice portare in scena opere nate in una società di cui abbiamo ancora memoria.
Talvolta, poi, entra in gioco anche l’ingombrante, inevitabile confronto con edizioni ormai consegnate alla storia del teatro. È il caso dell’Enrico IV, scritto per Ruggero Ruggeri e cavallo di battaglia di tanti giganti del palcoscenico: uno per tutti, Salvo Randone.
Non è la prima volta che Alberto Oliva si cimenta con queste sfide, e a volte le vince. Nell’affrontare l’Enrico IV, il giovane regista ha lasciato quasi in secondo piano l’esplorazione degli oscuri territori della follia (dolorosamente contigui all’autore, anche per le vicende familiari), per lasciarsi attrarre da un altro topos pirandelliano, forse meno frequentato, ma ricorrente nella sua poetica.
Non sempre si tiene presente che Pirandello vive e produce in una stagione di violenti rivolgimenti culturali. Nel 1911 esce il manifesto del futurismo e, nel medesimo anno, Paul Klee, Franz Marc, Vasilij Kandinskij ed altri costituiscono il gruppo “Der Blaue Reiter”. Nel 1913 va in scena a Parigi Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij; nel 1920 Arnold Schönberg crea il sistema dodecafonico.
Nelle opere di quei pittori, i canoni tradizionali della rappresentazione della realtà sembrano sfaldarsi; in musica vengono sovvertite convenzioni centenarie. Ma non meno sconvolgenti sono le rivoluzioni in campo scientifico. Nel 1915 Albert Einstein pubblica la teoria della relatività generale, che apre la strada ad una radicale messa in discussione sui limiti della conoscenza scientifica. Da lì a poco, nel ’26, tali limiti saranno formalizzati dal principio di indeterminazione di Heisenberg, e da quello della complementarità, di Niels Bohr, che riconoscerà la doppia natura della luce, ad un tempo ondulatoria e corpuscolare.
Si direbbe che scienziati ed artisti, ognuno nei propri ambiti e nei propri linguaggi, prendano insieme coscienza di una medesima, sconcertante inafferrabilità del reale.
Già in Così è (se vi pare) – la prima versione è del ’17 – Pirandello sembra offrire, col suo teatro, una sponda geniale e profetica a questa svolta epistemologica, che ormai è nell’aria. L’Enrico IV debutta nel 1922.
L’impossibilità di cogliere la realtà è il leitmotiv della lettura di Oliva, che si incrocia col tema della follia (peraltro, in Pirandello, sempre ambigua, incerta) e con l’uso della maschera, trasparente metafora di una realtà che non vuol lasciarsi svelare.
La scelta di una cifra non realistica viene dichiarata fin dall’inizio: i personaggi principali entrano in scena con grotteschi movimenti di danza, e con una maschera sul volto: ora ridotti a marionette disossate, ora forzati in stilizzate gestualità corali, quasi da tarantolati. Come nell’azione – un efficace colpo di teatro – che a poco a poco si esplicita nell’evocazione della fatale cavalcata e si conclude con la caduta che origina la follia del protagonista.
La partitura drammaturgica semplifica il testo originale ed è sostenuta da una scenografia di grande efficacia: una sorta di opprimente neogotico, la cui natura intrinsecamente fittizia – come fittizio è tutto l’impianto della situazione – è sottolineata dai ritratti dei protagonisti, imponenti gigantografie che, sul finale, si riproporranno in un inquietante aspetto deforme.
Su questo sfondo si staglia un vigoroso Mino Manni, nei panni di Enrico IV (il nome anagrafico del personaggio non compare mai nel testo pirandelliano). Paradossalmente, unico senza maschera, con una sua sanguigna autorevolezza nella sua ritrovata lucidità, ma ancora apparentemente folle, sembra riecheggiare i toni – e gli argomenti – del raisonneur Lamberto Laudisi, il personaggio coro di Così è (se vi pare).
In questo modo, pur lasciando inalterata, quasi beffardamente, la cornice di un mondo aristocratico defunto, la regia restituisce alle parole di Pirandello i perenni interrogativi sul rapporto che gli umani hanno fra di loro, e col mondo che li circonda.
Claudio Facchinelli