Davide Carnevali è un giovane drammaturgo milanese. Lo abbiamo intervistato dopo una conferenza tenutasi presso la Civica Scuola degli Interpreti di Milano. Ci siamo concentrati sul testo “Sweet home Europa”.
Parlaci del tuo rapporto con la scrittura e di com’è cambiato nel tempo: cosa significa per te scrivere oggi e cosa significava agli inizi?
Il mio rapporto con la scrittura teatrale non è cambiato molto rispetto al momento in cui tutto è iniziato, è una grande passione che mi ha portato a fare un lavoro che ammiro e che fino ad ora mi ha dato tante emozioni e soddisfazioni.
A cosa ti sei ispirato per scrivere questo racconto così particolare? Quali sono i tuoi punti di vista di autore?
Onestamente non ho avuto una musa ispiratrice, perché “Sweet home Europa” è nato da una mia voglia di raccontare un tema popolare che vedo diversamente dal pensiero comune. La mia diversa prospettiva mi è servita per sviluppare tutto il testo. Sai, alcune volte non sei tu a scegliere cosa scrivere, ci sono dei produttori che ti danno un tema sul quale devi comporre il testo adatto… però questo è un argomento a parte.
Solitamente un autore non si occupa solo di scrivere il testo, ma anche dell’impatto che potrebbe avere sul pubblico: che cosa ti aspetti dai tuoi lettori?
Non ho particolari pensieri a riguardo, né positivi né negativi, perché non posso indovinare quello che pensano i lettori – più che pensieroso sono sereno.
Il linguaggio che utilizzi nel testo è piuttosto dettagliato: fai uso di parole appartenenti all’area filosofica e anche a quella scientifica. E’ una scelta linguistica o un utilizzo della parola come strumento di potere?
Le scelte linguistiche sono una cosa a parte, prima di tutto viene il contenuto e poi la forma viene corretta. Direi che, in “Sweet home Europa”, la parola è utilizzata come strumento di potere. Bisogna usare la lingua per farsi comprendere e per trattare ogni tipo di argomento.
Le scene in cui è diviso il tuo testo hanno come protagonisti gli stessi personaggi oppure questi cambiano di volta in volta?
Hanno gli stessi settori semantici, ma non gli stessi personaggi, perché il testo è fatto in modo che lo spettatore non possa attribuire realmente un’identità fissa a tutti i personaggi e quindi non sappia a che punto della storia, con la “S” maiuscola, siamo, cioè se stia parlando la stessa figura di prima o il figlio o il nonno o il bisnonno o il pronipote. È un testo che puoi fare con dodici attori o con tre. La donna e l’uomo possono non essere sempre la stessa figura – potrebbero essere differenti – però questa ambiguità è voluta.
In alcune scene della parte finale del testo, l’impostazione grafica cambia. Perché e come va rappresentato?
Beh, perché una differente configurazione del testo letterario implica una differente configurazione della messa in scena e quindi una diversa ricezione da parte dello spettatore. Da un certo punto di vista cambiare la modalità di scrittura è una degenerazione del testo, che corrisponde a una degenerazione della storia: in questo modo arrivi al culmine verso il quale vuoi portare lo spettatore. Pensa che questo spettacolo è stato scritto per essere messo in scena, quindi all’interno di esso c’è il problema del ritmo, che deve evolversi mantenendo l’attenzione dello spettatore su una determinata modalità di messa in scena. Questo può durare fino a un certo punto: quando rompi il codice che hai creato per un’ora e mezza, cambi qualcosa e lo spettatore è portato a pensare: “Ah, allora qualcosa sta cambiando!
Perché per accompagnare le scene aggiungi sempre un movimento della nona sinfonia di Beethoven?
Per un motivo molto semplice: rappresenta l’inno europeo.
Alessandro Ferrari, Alice Chiapperini, Camilla Cuomo, Riccardo Mannucci, Sara Rescalli e Ilaria Rossi