una produzione Cantieri Teatrali Koreja
drammaturgia e regia di Gabriele Vacis
visto al CRT Milano Teatro dell’Arte _ 18-22 marzo 2015

I salentini Cantieri teatrali Koreja mettono in scena, per la regia di Gabriele Vacis, uno spettacolo dal ritmo avvincente incentrato sui molteplici sentimenti che legano una figlia al proprio padre, che funge contraddittoriamente da fratello, amico, compagno, amante mancato, tiranno. Una figura anche politicamente simbolica: perché ‘padre’, in certi regimi, è stato ed è epiteto propagandistico dei dittatori. L’immaginario greco rappresentò con Antigone la visceralità del rapporto padre-figlia, non privo di riflessi incestuosi, nonché la rete complicata dei rapporti in cui si inscrive: Edipo, padre di Antigone, ne è pure il fratello ed il sovrano; tra Edipo ed Antigone esiste un legame di complicità, condivisione, dedizione, al punto che la madre, semplicemente, scompare. Un legame esclusivo, quindi pericoloso e ambiguo, che implica un rispecchiamento ed un’appartenenza: il padre attesta anche il legame con la stirpe, con un popolo, con la polis o con il forzato esilio da essa, con la patria, dunque, nel bene e nel male.

La bambina diventa donna e il legame padre-figlia col passare degli anni si compone e ricompone come un fragile muro di bottiglie trasparenti, infranto più volte durante lo spettacolo e riedificato in forme diverse, a significare le situazioni storiche che cambiano, la precarietà di ogni costruzione familiare o statale, la fluidità dei sentimenti. Si immagina che le sei brave attrici – Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia)- si incontrino in un luogo di passaggio, un aereoporto europeo per voli low-cost, a simboleggiare l’instabilità del presente, la necessità del viaggio, l’allontanamento dalle radici; ma anche la conseguente ricchezza nella libertà di scambio di culture ed esperienze. L’aereoporto, un ‘non-luogo’, come si legge nel programma di sala, garantisce pure l’asetticità di uno studio psicoanalitico: dove, incontrandosi, le giovani donne raccontano dei loro padri o si raccontano a loro, tramite email. Invero non si tratta solo di confessioni intime, private: le loro storie costituiscono altrettante tessere di un mosaico geografico che va dal Salento alla Bulgaria alla Polonia alla Macedonia; nei loro pur giovani ricordi grava un passato pesante, il comunismo, il nazionalismo esasperato, la guerra dei Balcani, i volti scavati delle donne anziane della nostra Puglia che alla fine degli anni ’70 guardavano con sconcerto le figlie emanciparsi. Queste giovani donne parlano una lingua comune, l’inglese, con cui possono capirsi a dispetto della loro così diversa provenienza; ma si capiscono anche perché le loro esperienze si assomigliano nel confronto adolescenziale con il mondo dei maschi, nel subirne le violenze implicite ed esplicite, nella nostalgia ineludibile del padre giovane, forte, sicuro, nel rifiuto rabbioso della sua autorità e della sua gelosia morbosa, irrispettosa, da amante respinto. In gioco si mette sempre il corpo, che reagisce ai ricordi come se ricevesse scosse elettriche, si abbatte contro il muro trasparente come contro il liquido amniotico dell’origine, corpo di donna giovane esibito per nascondere la bambina impaurita, corpo che delude, fonte di insoddisfazioni, corpo che spaventa, corpo che ricorda quando non vorrebbe, corpo preso da convulsioni e mai rassicurante o rassicurato, anzi, in continua ansia proprio perché corpo di donna. Il dilemma sta, alla fine, nel corpo, in quel che il corpo sente, eredita, assimila, subisce.

Si tratta di teatro di narrazione e documentario, scaturito da un’inchiesta: accanto alle parole, i video e le musiche ricordano un pezzo di storia europea degli ultimi trent’anni. Lo spettacolo induce a riflettere e se talora si sorride, resta alla fine una questione: le parole delle ragazze echeggiano in un presente sbiadito e senza connotazioni precise, un presente schiacciato dal passato e poco incline a trasformarsi in un futuro gioioso, in un sogno realizzato, come se le cicatrici lasciate dal ‘padre’ fossero indelebili al punto da pesare come la maledizione di una stirpe: viene in mente ancora la tragedia greca, ed ancora Antigone. Antigone torna in un altro aspetto: queste giovani donne sono così attaccate al loro ruolo di ‘figlie’ che mai nelle loro parole affiora la prospettiva o il desiderio di diventare madri. I possibili amori sono pensati con disincantato scetticismo, come se gli amori veri fossero già definitivamente naufragati, alcuni ostacolati dall’ingombrante figura paterna. D’altro canto la coraggiosa dispersione per le strade del mondo alla ricerca di una propria identità è vissuta come un confronto doloroso con il passato e con quel che il ‘padre’ (familiare o politico) vi ha rappresentato. Lo spettatore si chiede allora quale sarà l’esito di queste storie, dal momento che il ritorno al padre non sembra e non è ammissibile, nonostante la nostalgia. Forse il presente, e con esso la generazione di queste bravissime attrici, ha diritto a qualche speranza in più. Non possiamo credere che l’amore discutibile per Edipo meriti il sacrificio finale di Antigone.

Sotera Fornaro