La parola a Fabio Condemi, il regista che a soli 34 anni è già al suo terzo incontro con le parole di Pier Paolo Pasolini. Il suo Calderón, dopo aver debuttato a Bologna, è approdato al teatro LAC di Lugano il 22 novembre 2022. Lo incontriamo all’uscita e, nonostante la pioggia e la fatica della prima svizzera, risponde alle nostre domande con grande entusiasmo.
Come in quello di Pasolini, anche nel tuo lavoro il quadro Las Meninas di Velasquez assume una funzione centrale: in particolare crei sulla scena quasi un tableau vivant, in cui i personaggi hanno questi particolari vestiti di carta. Cosa rappresenta questa immagine all’interno della tua opera?
Per Pasolini Las Meninas è il centro dell’autorappresentazione del potere. Io ho scelto di portare sul palco il momento precedente, in cui la rappresentazione è ancora dentro la testa del pittore. Da qui la scelta di prendere gli undici personaggi del quadro, di vestirli tutti di carta e di inserirli in una griglia prospettica. Diventano così esplicitamente falsi, anche se rappresentano una verità: quella delle dinamiche di potere. Il nostro occhio regola la realtà, che non è prospettica. Allo stesso modo questo mondo, e quindi anche il quadro, è un mondo di carta.
Il personaggio dello speaker sfrutta queste vesti di carta per diventare il pittore stesso del quadro. Possiamo dire quindi che sia un portatore di “verità”?
Come spiega anche Foucault ne Le parole e le cose, il pittore si è rappresentato dentro il quadro, ma allo stesso tempo è anche fuori. Analogamente, lo speaker, interpretato da Marco Cavalcoli, si presenta come colui che parla in vece di Pasolini, il quale, per rappresentare il potere, deve necessariamente farne parte. In realtà, l’autore vive sempre nell’imbarazzo: prova a spiegare qualcosa che sta per mostrarsi, ma inciampa. Quest’autocoscienza su cosa sia l’autore è tipica in Pasolini.
Per il tuo Calderòn firmi sia la regia sia la scenografia. Eppure sappiamo che Pasolini non ha dato indicazioni scenografiche. Quanto hai lavorato su questi vuoti da riempire?
È vero, Pasolini ci ha lasciato solo il testo. Infatti lo speaker, in quanto suo doppio, dichiara: “io sono qui e faccio da didascalia, perché non è più possibile una didascalia”. Se la didascalia è abolita, allora tutta la parte legata allo spazio e alla rappresentazione è una bellissima incognita. Io ho cercato di risolverla creando quasi una drammaturgia parallela, un fiume di riferimenti e citazioni che si accosta alle scene, e segna i temi centrali: i due spazi, lo stare dentro e fuori dal quadro, i personaggi che diventano spettatori, la porta che rimane sempre aperta. C’è comunque anche qui tanto di Pasolini. I costumi, ad esempio, richiamano molto Porcile, l’unico film che Pasolini ha tratto da una sua opera teatrale.
Sempre restando sulla scenografia: c’è un oggetto di scena, una boccettina rossa, che viene passato di mano tra le tre Rosaure, quasi come un testimone. Ce ne parli?
La boccettina rossa è chiaramente un segno, uno dei tanti che sono disseminati per far sì che ci sia un passaggio continuativo tra le tre Rosaure – che poi sono un’unica figura scissa – e quindi tra i tre sogni. Con la prima, questo oggetto è contestualizzato dentro la Reggia del Velasquez, e diventa un esempio stesso della tradizione e dell’arte. Non appena viene tolta da questo contesto, diventa un elemento quasi disturbante. Arriviamo quindi alla seconda Rosaura, che infatti trova l’ampolla in mezzo all’erba poco prima di scoprire che Pablo è suo figlio. Con la terza, essa rimane su un tavolo, abbandonata, e viene portata via dai due servi, e alla fine scompare, come scompare il quadro, e quindi la rappresentazione.
Parlando delle Rosaure, alla fine hai scelto di utilizzare il corpo della prima Rosaura nel modo più semplice, ma anche più forte possibile, ossia nella sua completa nudità. Come mai questa scelta?
In quella scena Rosaura scopre l’amore e quindi anche la sessualità. Cerca di affermarsi anche in questo («lo so come è fatto, ho visto Pablito nudo»), e si offre come persona e come corpo, nel modo più puro possibile, forse anche un po’ buffo. In questa nudità non c’è nessun tipo di colpa. E proprio in quel momento, nel momento di massima fragilità, arrivano invece tutte le colpe dei padri: Sigismondo, come un fantasma, le rievoca tutte e dice: «tu non eri ancora venuta al mondo, dal buio? E proprio lì c’è la colpa dei padri che ricade su di te».
E infatti, subito dopo, vediamo un uso del nudo completamente opposto: una Rosaura che strumentalizza il suo corpo.
Esatto. Si passa da una nudità totalmente inconsapevole, quasi infantile, alla Rosaura successiva, che invece vende il suo corpo.
L’ultima domanda è relativa al senso. Pasolini pensava ad un teatro che spingesse al dialogo, a suscitare domande. In particolare, lui parla delle dinamiche di potere da cui, ciclicamente nella storia, non riusciamo mai davvero a scappare. Per te il teatro ha la stessa funzione?
In questo senso mi sento un pò come lo speaker: non so dare una vera risposta. Quest’opera porta alla luce dei dilemmi ancora non sanati, e quindi attualissimi. Il teatro deve suscitare il dialogo ed è per questo che il mio obiettivo non era guidare lo spettatore nella messa in scena, ma al contrario aprire la porta a diverse letture. Che cos’è il potere? Che cos’è l’analisi che Pasolini faceva sul neocapitalismo? È giusta? Non è giusta? Non sono io a dare la risposta, perché il teatro, per l’appunto, non è didascalico. In questo senso è “anti-brechtiano”.
Quello che mi ha davvero guidato, nel mio rapporto con Pasolini, era dimostrare che le parole di questo autore fossero fatte per essere dette. Sono parole fatte di carne, di sogni: sfatiamo questo mito dell’impossibilità di metterle in scena. Il teatro di Pasolini è assolutamente un teatro fatto perché questa parola venga presa e messa al centro.
Alida Savio, Elisabetta Brozzi, Andrea Mazzoni
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica