di Àtopos
Regia di Marcela Serli
visto al Teatro Ringhiera di Milano_ 21 – 24 novembre 2013

Uno spettacolo come Variabili umane ci pone di fronte a domande, non risparmia motivi di turbamento ma non pretende di fornire risposte. Il tema su cui ci si interroga è il genere: maschio, femmina, variabile. Il tema di fondo è la transessualità, universo così vario e inafferrabile, non ancora del tutto sdoganato dalla società.
L’inizio, secondo una cifra espressiva che sembra connotare la poetica e la regia di Marcela Serli (mezzo italiana, o meglio triestina, e mezzo libanese), è all’insegna di una voluta ambiguità. Entrando in sala, il pubblico trova già in scena, immobili, due personaggi in severi abiti maschili. Si assiste quindi alla trasformazione a vista del più alto dei due che, coadiuvato dal compagno, sciolti i capelli raccolti, sostituito il completo maschile con abiti femminili, si rivela donna. Irrompe quindi sul palcoscenico una chiassosa masnada, prevalentemente femminile. Chi in lungo, chi in mini-vestito, chi in fantasiosi unisex, tutti si allineano in proscenio e, su invito di Marcela, infaticabile demiurgo che si sposta continuamente fra palco e platea, si presentano. Ma l’operazione non è affatto pacifica: le donne si parlano addosso, si accusano, recriminano, fino ad accapigliarsi. Una ragazza dalle gambe ben disegnate e un vistoso abito di paillettes si inserisce con indiavolate esibizioni di danza. E il pubblico, che cerca di raccapezzarsi fra questi arruffati interventi, scoprendo intanto che l’indiavolata ballerina – a primo sguardo, una delle più plausibili, veraci femmine in scena – è invece un valente professionista delle Drag Queen, comincia a domandarsi cosa è vero e cosa invece è finto.
Poi, a mano a mano che le storie si dipanano, aumenta lo sconcerto dello spettatore: la donna che, inizialmente in completo scuro, si è trasformata a vista, è nata uomo; un’altra, dai tratti forti, ma per nulla sgraziata nei suoi attributi femminili, è padre di due figli nella sua trascorsa identità maschile, ed è in servizio come ispettore della polizia di stato.
Dal pubblico sale sul palco una ragazza longilinea, il volto regolare e lunghi capelli neri, che racconta con semplicità e pacatezza di avere diciannove anni, di essere nata maschio, ma di aver da sempre desiderato essere donna; ha un ragazzo, nato femmina e diventato uomo; quindi torna a sedersi in platea. E di nuovo lo spettatore si domanda se il suo intervento sia davvero spontaneo, estemporaneo, o faccia parte della drammaturgia. Ma nel finale, nel grande ballo liberatorio, dionisiaco, che chiude lo spettacolo, lei torna sul palco, si unisce alla danza e, sfilata con naturalezza la maglia, scopre un seno nudo da adolescente.

Tutto finto, quindi? È solo un’attrice che, con toni di verità, recita una parte?
No. Spenti gli applausi, Marcela invita chi ne ha piacere a fermarsi e incontrare la compagnia.
In un contesto che non ha più nulla di spettacolare, quelle storie si ripropongono, si sviluppano. Antonia, una donna dall’aspetto placidamente matronale, racconta i suoi dieci anni di prostituzione (“Non c’era un altro mestiere che potessi fare”); ma da qualche tempo gestisce, con altri, uno sportello di assistenza ai transessuali; e mi rimprovera di aver detto “un transessuale”, e non “una transessuale”.
Laura, che non era in scena, ma fa parte da sempre della compagnia, enumera i vantaggi e gli svantaggi dell’esser donna nella società di oggi; parla della difficoltà di liberarsi della categoria sessuale che l’anagrafe ti attribuisce alla nascita, e che non senti tua, senza cadere negli stereotipi di genere in cui la società vorrebbe confinarti.
La ragazza longilinea, seduta per terra, non interviene nella discussione, ma capisco che ha davvero raccontato la sua storia. Così come tutti gli altri, che ci hanno obbligato a riflettere su “quante cose ci sono fra cielo e terra”, e quanto complesse. Anche in un ambito, quello del genere, ove eravamo pigramente abituati a credere che vigesse il principio del terzo escluso.
E l’hanno fatto, efficacemente, col rigoroso linguaggio del teatro.

Claudio Facchinelli