di Motus
regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni
visto a Zona K di Milano_8-12 marzo 2016

Gender è oggi più che mai una parola sulla bocca di tutti, e non solo perché riferita a un tema “sexy”, caldo o di moda. Ma anche perché, a seconda di chi la usa, designa qualcosa di diverso. Parola di Judith Butler, che a simili “problemi” (correva il 1990 quando pubblicò Gender Trouble) si dedica da più di vent’anni e che il genere l’ha fatto e disfatto (Doing and Undoing Gender esce nel 2004). È appunto Butler che, nel 2004, a dieci anni dalla conferenza dell’ONU (sì sì, proprio le Nazioni Unite) per giungere a una comprensione del termine, scrive: “La mia opinione è che sia non solo impossibile pervenire a un definizione univoca di ‘genere’, ma che soprattutto sia molto più importante affinare la nostra capacità di tracciare i percorsi di questa parola nel senso comune”. E come?

È il caso di dirlo: ce n’è per tutti i generi. La reading list per aspiranti affinatori è lunga e in continua crescita. Butler ha conosciuto un vero e proprio boom di ritraduzioni in Italia (se ne parla qui ), a testimonianza di quanto, nello spazio di soli dieci anni, si sia avvertita la necessità di rinegoziare i confini semantici e discorsivi del termine per vivere e interpretare un contesto sociale ed esperienziale profondamente mutato. Gli amanti delle strisce potranno “affinare” divertendosi con Dykes: lelle, lesbiche, invertite (BUR 2009) della graphic novelist Alison Bechdel, la quale nei suoi riquadri riassume rigorosamente la rivoluzione dei gender troubles degli anni Novanta. Oppure, dal 9 al 25 marzo si può andare a teatro a  Zona K a Milano, dove è in cartellone un “focus” sul genere (http://www.zonak.it/focus-genere/) e dove è andato in scena uno spettacolo tratto, fra le altre cose, da uno dei romanzi che sicuramente ha segnato il nostro nuovo immaginario di genere: Middlesex di Jeffrey Eugenides. Stiamo parlando di MDLSX dei Motus, acclamato da Santarcangelo a New York e approdato nel capoluogo lombardo grazie all’intelligenza di Sabrina Sinatti e Valentina Kastlunger, quelle, per intenderci, che ci hanno fatto percepire Milano attraverso la prospettiva dei i Rimini Protokoll.

Sarebbe sbagliato, fuorviante, definire MDLSX un one-woman show di/con/su Silvia Calderoni. La forza dello spettacolo, la sua incisività risiede infatti nel suo essere opera polifonica. Come ha spiegato l’affiatato trio Motus (insieme alla Calderoni: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò), MDLSX è stato costruito diversamente rispetto ad altri spettacoli della compagnia: “se – racconta Daniela Nicolò – normalmente siamo soliti costruire la drammaturgia in contemporanea al lavoro con gli attori, in questo caso, per la prima volta la drammaturgia era già tutta scritta prima di iniziare. Paradosso, per uno spettacolo in cui il corpo, la performatività, di Silvia Calderoni sono quanto mai centrali? No, nessun paradosso, bensì vera e propria condizione di esistenza per una rappresentazione che gioca volutamente a disattendere le aspettative del pubblico ma senza nessuna propensione alla provocazione gratuita. Calderoni e compagni concentrano il proprio operato sulla tensione produttiva che si innesca nel combinare autobiografia “esibita” (incarnata dal corpo androgino di Silvia Calderoni) narrazione (quella multimediale, fatta di musica e video e quella delle diverse narrazioni sul genere come, tra gli altri, quelle di Butler e Preciado) e narratività  (quella dei diversi testi a cominciare dal romanzo che da titolo all’opera). Un mix che trasforma MDLSX in una notevole opera di montaggio e smontaggio.

Lo spettacolo si apre con una frase che potrebbe sembrare quasi scontata, ma che in verità lo spettatore dovrà riformulare spesso in corso di visione: “per alcune emozioni non ci sono parole”. E non solo per le emozioni: a volte si ricorre alle parole, alle narrazioni altrui per raccontare se stessi. O alle canzoni altrui: ed ecco che nello schermo a tutta parete che costituisce il fondale scenografico di MDLSX, come una sorta di palinsesto, si apre un riquadro in cui appare il video di una preadolescente Silvia Calderoni impegnata in un karaoke: a cantare cioè, le canzoni d’altri. I video della Silvia preadolescente si susseguono, riportando alla luce l’immaginario musicale e di costume dei primi anni novanta. Silvia nel giardino di casa; Silvia in cameretta; Silvia sul campo di atletica: chi, cresciuto in quegli anni, non si ritrova in quei filmini? Ma mentre noi spettatori assistiamo all’amarcord, Silvia guarda nella telecamera e noi vediamo i suoi selfie. E ascoltiamo le parole che Silvia recita davanti alla telecamera per gran parte tratte da Middlesex di Eugenides. Una compresenza di livelli che va ben oltre il citazionismo, provocando un continuo spiazzamento nello spettatore. A saltare è prima di tutto la deissi: il qui ed ora che è quello del romanzo in prima persona con il suo tempo al passato, per lunghi tratti sembra sovrapporsi con agio alla cadenza narrativa di Silvia, salvo poi essere squarciato da intermezzi ad alta tensione performativa, dove Calderoni si traveste, balla, cambia la musica. Insomma: mai accomodarsi in una sola narrazione, sempre chiedersi: a chi è riferita? Di chi si sta parlando?

È questo il secondo punto sollevato, sempre con grande abilità e senza alcuno scivolone didascalico, da MDLSX: la definizione del genere, la negoziazione tra identità, ruoli e sessualità, si produce necessariamente nell’interazione con l’altro. E non – come vorrebbe una versione che certo contiene una verità incontrovertibile ma riduttiva – nel momento in cui la prima cotta avviene fuori dalle linee narrative e comportamentali tradizionali, ma molto prima. MDLSX non è la storia di un’educazione sentimentale “altra”, melodrammatica, unica e irriducibile: MDLSX invita a fare un passo indietro, a interrogare il genere prima che questo ci definisca ma riconoscendo che non si tratta di un passaggio scontato per nessuno. Certo, chi non è scivolato con agio in un modello approvato e riconosciuto, ricco di confortanti narrazioni, è stato costretto a fare questa riflessione prima di altri. Calderoni, a questo punto, affida la parola a Beatriz (prima che diventasse Paul) Preciado nell’intervista in cui Alejandro Jodorowsky la incalza chiedendole: “Tu ti definisci lesbica?” “No, sono gli altri che mi hanno sempre definito prima che potessi farlo io”. È lo stesso tranello in cui rischia di cadere il pubblico di MDLSX e da cui viene soccorso grazie al ritmo incalzante, all’interazione tra diversi media, da sempre cifra stilistica di Motus ma che qui diventa quanto mai consentanea al tema dello spettacolo.

Middlesex è un romanzo su un “caso limite” di ermafroditismo: condizione limite da cui partono, non a caso, Foucault in Una strana confessione. Memorie di un ermafrodito, e l’autore di Middlesex, che ci presenta la narrazione di sé, di Calliope Stephanides, ermafrodita protagonista del romanzo. In entrambi i casi, l’uso della prima persona coinvolge decisamente lo spettatore, lo conduce naturalmente verso il punto di vista di chi narra. MDLSX opera invece un ulteriore scarto: perché la storia di Silvia Calderoni è altra, è molteplice. La sua prima persona non istituisce un legame diretto con il corpo in scena, ma si serve dell’io di Eugenides, delle parole di Preciado proprio per disinnescare nello spettatore qualsiasi domanda scontata: ma allora, Silvia, che cosa sei?

Non è questo il punto: con le parole d’altri, con il lavoro dei Motus che da dieci anni contribuiscono a ridefinire continuamente (per citare Orlando della Woolf) “i lineamenti del suo carattere”, Silvia Calderoni rivendica a gran voce due cose. Prima di tutto una schiettezza, un’immediatezza nell’entrare nella tematica di genere che non manca mai di complessità: per lei, dice nell’incontro con il pubblico, non si tratta di un tema alla moda, ma di qualcosa che la interessa dal 1981, da quando è nata. MDLSX non va a costruire a ritroso una narrazione della diversità revisionista e retrospettiva: Silvia che si dimena e sul palco, e nell’ultimo gioioso ballo con suo papà nel filmato che chiude lo spettacolo, è proiettata verso il futuro, al limite nel presente dell’ora e venti della performance ma mai nel passato. Silvia rivendica, in secondo luogo, la possibilità di potersi ridefinire costantemente, pur essendo “sempre stata così”. E non si tratta di un’adolescenziale sindrome di Proteo, bensì proprio di quella capacità di tracciare i percorsi della parola genere nel senso comune, per tornare a Butler. Come? Accettando che mai come oggi ci si impone l’ “inestinguibile impossibilità di stabilire i confini certi fra il ‘biologico’, lo ‘psichico’, il ‘discorsivo’ e il ‘sociale’” (Fare e disfare il genere, p. 275). Siamo allora condannati a vivere nell’indeterminatezza programmatica? No. Ma troppo forte oggi è ancora la detonazione che ha fatto esplodere il binarismo su cui si è strutturata a lungo l’articolazione discorsiva del genere fino a pochissimo tempo fa. E, mentre filosofi, sociologi, medici (perché il nesso con la patologia è ancora troppo forte), genetisti fanno il loro lavoro, possiamo – dobbiamo – concederci l’esplorazione di narrazioni alternative, polifoniche eppure personalissime come quella proposta da MDLSX.

Sara Sullam