di Piero Colaprico
visto al Teatro Menotti di Milano_ 26 al 28 settembre 2014.
‘Tener brasera’ era un’usanza della buona società ambrosiana di fine Settecento, la quale, specialmente in inverno, era solita trovarsi nei caffè intorno a un braciere a chiacchierare, a scambiarsi opinioni, a bere un bicchiere, in poche parole, a fare salotto.
Poi venne il “trani”, la tipica vineria di Milano dove i ceti popolari e medi (più raramente quelli altolocati) venivano a sfogare il proprio desiderio di socialità e infine il più modaiolo happy hour.
Nel solco di questa antica consuetudine, Milanoir Milanuit sembra, quasi esplicitamente, voler rinunciare in partenza all’ambito teatrale stricto sensu per privilegiare invece una dimensione conviviale, una forma ibrida a metà tra l’anarchia del ‘cunta su’, del ‘ciciarem un cicinin’ e la fisionomia, più strutturata, del cabaret.
Del resto, sul palco, tra i personaggi seduti ai tavoli della trattoria-scenografia apparecchiata per l’occasione al teatro Menotti, solo due sono attori professionisti (Marco Balbi e Alessandro Castellucci), gli altri hanno formazioni diverse: c’è il Pelè, vecchio esponente della ligera (la mala milanese degli anni ’50-’60), oggi ristoratore, Didi Martinaz, cantante d’avanspettacolo che gravitava intorno al medesimo ambiente e Davide Atomo Tinelli, street artist della prima ora, attualmente proprietario di un’osteria. Quanto a Piero Colaprico, capocomico di questa stravagante compagine, viene presentato da Balbi in una sorta di prologo-excusatio: “Se un tempo avevano Shakespeare” – mette le mani avanti con ironia Balbi – “noi dobbiamo accontentarci di un giornalista scrittore…”
A sostegno della reputazione teatrale del “giornalista scrittore” si potrebbe ricordare che Serena Sinigaglia e l’Atir avevano ricavato da uno dei suoi romanzi più noti l’apprezzato Qui città di M, un precedente, a ben vedere, diverso da questa nuova operazione. In Milanoir Milanuit infatti Colaprico stesso è in scena a cercare di dirigere in prima persona il traffico dei racconti, delle battutacce, delle canzoni, nel tentativo di imbrigliare il ritmo della narrazione, di dare corpo organico all’aneddotica, di moderare esuberanze e défaillances dei suoi compagni di avventura. Non sempre ci riesce, va detto: l’ambiente sarà pur informale e senza troppe ambizioni, ma per non accorgersi dei tempi comici mancati, delle freddure fuori posto e dell’accavallarsi dei dialoghi, bisognerebbe che i lubrificanti alcolici di cui si servono gli attori fossero distribuiti anche al pubblico. Tuttavia un interesse rimane: i racconti e i ricordi, le esperienze condivise di ‘milanesità’ e le riflessioni su come sta mutando lo spirito cittadino finiscono per suscitare un’attrattiva antropologica, quasi etnografica, inducendo lo spettatore a osservare con sguardo partecipe e affettuoso il tentativo di tramandare questo patrimonio ai posteri.
Il fatto è – sembrano confermare anche i personaggi di Colaprico – che l’anima del milanese versa perennemente in una crisi identitaria: c’è la parte nostalgica che guarda con rimpianto alla Milano che fu (forse non la migliore possibile ma densa di un’umanità irripetibile) e quella proiettata verso il futuro, verso un rinnovamento necessario per rimanere la capitale morale del paese. Milanoir Milanuit risulta in questo senso una variante di quella Milanin Milanon di cui scrisse Emilio De Marchi all’inizio del secolo scorso, solo filtrata attraverso il noir, il genere che meglio ha saputo rappresentare l’ambiente metropolitano negli ultimi cinquant’anni. Così i racconti di quando si faceva ‘el teater in Quadronn’ lasciano il posto all’epica criminale sulle gesta di Vallanzasca o su Jess il bandito e la celebre rapina di via Osoppo.
E se un paio di secoli fa ci avrebbe pensato un poeta ad esclamare amaramente: “Sorti magnifiche e progressive!” nel 1969 fu, assai più prosaicamente, Giorgio Scerbanenco ad avvertire dalle pagine di un romanzo poliziesco che con “la società di massa sarebbe arrivata anche la criminalità di massa” a rivelare la faccia oscura del boom economico. Milano, come sempre, sarebbe stata la prima in Italia a verificare gli esiti di quel cambiamento e a piangere, col magone in gola, in un rito nostalgico e tipicamente meneghino, il tramonto di una delle sue identità.
Corrado Rovida