Chi è lo spettatore? È colui che si immerge e si lascia catturare dal vortice della performance, che diventa tutt’uno con ciò che accade sul palco e poi, all’improvviso, si chiede: «L’avrò pagato il parcheggio?», o anche: «Che impegni ho domani mattina?», poi, di nuovo, torna a concedersi, abbandonando ogni resistenza, ancora si distrae e così via.
Parole di Christos Papadopoulos, coreografo greco, classe 1976 e fondatore della compagnia Leon & the Wolf che, in occasione della rassegna Kinesis-corpi e idee in movimento –esperimento nato per confrontare e avvicinare la scena della danza contemporanea greca a quella italiana – ha portato lo spettacolo OPUS nelle sale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Già il titolo scelto da Papadopoulos porta inscritto nella sua etimologia una sorta di dichiarazione di intenti, o forse un avvertimento: una volta in sala, il pubblico sarà all’interno di un cantiere, un luogo dove nulla è definito e tutto è in costruzione.
L’opera si apre infatti nel segno del minimalismo: un fondale bianco privo di elementi connotativi per poi comporsi in crescendo con la progressiva entrata in scena di quattro performer vestiti di nero. A dividerli solo un filo, al quale è appesa una lampadina accesa che impercettibilmente guadagna quota, fino a posizionarsi a circa tre metri da terra.
In contrasto con la neutralità formale della scena si percepisce la presenza disarmonica, quasi invasiva, della musica: si tratta della reiterazione alienante del suono di quattro strumenti campionati da L’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach e riproposti ininterrottamente, tanto da ricordare a tratti l’avanguardia musicale di Luciano Berio e alcune scene del film Metropolis (1927) in particolare la celebre sequenza dove un operaio è costretto a diventare fisicamente l’ingranaggio di un gigante orologio all’interno di una fabbrica futurista. Il pubblico, abituato a pensare che sia il performer a seguire la musica e non viceversa, assiste a qualcosa di inaspettato: i gesti dei danzatori non sono generati dal suono degli strumenti ma sono la rappresentazione degli strumenti stessi.
È così che i performer perdono sembianze umane e diventano frequenze di violino e violoncello: non interagiscono fra loro e avanzano imperterriti in una coreografia individuale, “costretta” e misurata che ricorda esplicitamente le dinamiche che stanno alla base di una catena di montaggio. Nello studio del flusso della catena di montaggio e, nella fattispecie, nell’analisi della ripetizione automatica del gesto dell’operaio nacque, a inizio Novecento, l’intuizione di un nuovo tipo di movimento. Rudolf Laban, uno dei padri della danza moderna, partì dall’interazione alienata tra uomo e macchina per generare una nuova filosofia della danza che sfociò presto nella corrente della “danza libera”, un rituale che, rifiutando il progresso, le regole e le istituzioni, predicava il totale abbandono dell’individuo nella natura incontaminata e che trovò in seguito terreno fertile all’interno della propaganda dei movimenti nazionalsocialisti come pratica di coinvolgimento delle masse.
La performance ci mette quindi in guardia: la ricerca di una propria individuale verità diventa alienante, pericolosa e talvolta distruttiva se ostinatamente ignora l’armonia del tutto e il progresso comune dell’intelletto. In questo senso, OPUS non sembra parlare solo di danza contemporanea greca, Bach o Germania di inizio Novecento ma, in un certo senso, anche di no-vax e terrapiattisti. E il fatto che sopra i performer, a un tratto, si spenga la lampadina, l’unica fonte di luce presente in scena (la luce della ragione?), è di poco conforto per i tempi che verranno.
Emanuela Gussoni
OPUS
di Christos Papadopoulos
Coreografia: Christos Papadopoulos
Musica: L’arte della fuga di Johann Sebastian Bach
Editing musicale: Kornilios Selamsis
Disegno luci: Miltiadis Athanasiou
Performer: Amalia Kosma, Maria Bregianni, Georgios Kotsifakis, Ioanna Paraskevopoulou
Visto alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano_il 10/03/2019