Delfi, l’ombelico del mondo antico, serbatoio di energie primordiali che assumono i volti opposti e complementari di Apollo e di Dioniso. È qui che nel 1985 ebbe una svolta decisiva l’avventura artistica del famoso regista greco Theodoros Terzòpoulos: l’atto di nascita del Theatro Attis. Da allora molto è accaduto. La critica e le platee di tutto il mondo lo hanno acclamato e il suo “metodo” viene insegnato in trenta università: un’educazione che mette al centro il corpo, per riscoprirne le potenzialità, il respiro ancestrale, l’energia della voce (Il ritorno di Dionysos, Cue Press, 2017).

Nell’era virtuale, dove la complessità si miniaturizza per essere contenuta nella cornice del nostro smartphone, l’uomo rischia – denuncia Terzòpoulos – di diventare senza corpo, apatico. «Metto l’uomo al centro, per un nuovo umanesimo, cioè un ritorno al corpo e alle nostre radici, per guardare il mito negli occhi. E il mito è selvaggio e pericoloso», dichiara in un’intervista (To spirto, 03.07.2018). Ritorno a Dioniso è anche il titolo di un importante evento dedicato al grande regista (organizzato dal Centro Culturale Europeo di Delfi e Fondazione Onassis), dal 5 all’8 luglio 2018 a Delfi: presentazione di una mostra fotografica e materiale documentario sulle sue produzioni, un convegno con accademici e nomi importanti del teatro mondiale (Vasiljev, Barba, Fabre, Lehman, De Creus, oltre a numerosi studiosi greci).

foto: © Athinorama

Nel teatro antico di Delfi il 6 e il 7 luglio (e il 7 luglio con possibilità di visione streaming) Terzòpoulos ha presentato le Troiane di Euripide, che avevano debuttato lo scorso anno a Pafos (Cipro), Capitale della Cultura 2017. Appuntamento alle ore 19. Si sale la Via Sacra, si lasciano alle spalle il Tesoro degli Ateniesi e il tempio di Apollo, e si arriva alla spianata del teatro antico. Le pietre scottano ancora e le cicale cantano. Durante lo spettacolo i colori disegnano una scenografia cangiante: accanto, le rosse Fedriadi e laggiù la vallata, che prima riluce e poi si copre di ombra. Terzòpoulos ha scelto questa ora magica per non creare interferenze artificiali: non occorrono microfoni né riflettori per rendere omaggio a Dioniso.

Come rappresentare la gloria caduta di Troia? Questa volta accanto al regista non c’è il grande Ghiannis Kounellis, scomparso nel 2017 (a lui è dedicato lo spettacolo), ma di lui si applicano le idee di semplicità essenziale. L’orchestra è occupata da scarpe, anfibi militari disposti in cerchi concentrici, segno scenico di presenza-assenza: sono i resti di un’umanità distrutta, schiere di soldati e cittadini morti. Ci ricordano i cumuli di scarpe di Auschwitz, oggetti vuoti per sempre dei loro padroni, ma il cerchio che disegnano è anche spirale inquietante di un destino che attanaglia senza scampo le sue vittime. A più riprese il destino prenderà la forma di una lettera (bianca, poi rossa e infine nera), sentenza inappellabile che cala come un fendente sulle donne di Troia.

Il “rito” di Terzòpoulos comincia. Il tempo si dilata, perché ciò che importa non è la trama o l’azione, ma l’evento, guidato dalla corporeità degli attori. I corpi oscillano, si scuotono come per le onde sismiche di un pathos incontenibile, si tendono, si piegano, e poi ancora strisciano a terra, sfilano con lentezza ieratica, imbracciano spade, mannaie, veli… E mentre l’attore si fa corpo, sprigiona la voce che è energia sonora pura: frasi smozzicate, respiro o roca inspirazione, risate che si fanno pianto e urla rimbalzano nel santuario antico con un effetto da brivido.

A dimostrazione che la tragedia è universale, il regista ha scelto undici attori di sette Paesi diversi. Ognuno parlerà nella sua lingua: greco, turco, bosniaco, croato, serbo, persiano, ebraico. Alcuni di loro provengono da città che hanno vissuto la guerra e ne portano ancora le cicatrici di divisione: Nicosia, Mostar, Gerusalemme. Troia rappresenta tutte le città martiri della guerra e le sue donne costrette alla schiavitù vivono lo stesso dramma dei profughi che oggi solcano il Mediterraneo. Euripide sta parlando a noi.

Ecco il primo personaggio in scena: concitato, le parole si frantumano, si fondono al respiro e infine si diluiscono in un malinconico canto turco (Erdogan Kavaz). Ecuba è interpretata da una Signora delle scene, Dèspina Bebedeli (classe 1941!), capelli bianchi, occhi intensi, sprizzanti scintille o persi nel vuoto. La tragedia potrebbe trasformarsi in un lungo lamento funebre, ma qui si va oltre.

foto:© Johanna Weber

Gli attori di Terzòpoulos mostrano la disperazione dei vinti che si trasforma in follia. Tra le scene più intense c’è infatti l’ingresso di Cassandra, trionfante perché andrà sposa ad Agamennone e sarà causa per lui di morte. Il ruolo viene frammentato e condiviso da sei attrici, in una lenta sfilata a staffetta: una dopo l’altra, attraversano il cerchio delle scarpe, strisciano, calciano, urlano, cantano, e le sonorità di esultanza e disperazione scivolano da una lingua all’altra, attraverso le ossessioni corporee di ognuna (Ajla Hamzic, Evelina Arapidi, Hadar Barabash, Sara Ipsa, Evelyn Asouant). Andromaca è la greco-cipriota Niovi Charalambous, capelli rossi e bellezza rinascimentale. Ricorda Ettore e lamenta il futuro in una posizione in bilico, schiacciata tra due assi, rette dai Greci che la spingono come un pendolo, da una parte all’altra, non più padrona di sé; all’annuncio della prossima fine del piccolo Astianatte, le assi si dispongono in una croce, mentre l’aria è lacerata dall’urlo straziante di Ecuba. Il Coro strofina invano le pietre con panni rossi, come imbevuti di sangue. Andromaca intanto oscilla, annichilita dal dolore, come a cullare il cadavere del bimbo.

foto:© Johanna Weber

La seconda parte della tragedia vede affrontarsi l’abilità retorica di Elena (Sofia Hill, attrice-icona di Terzòpoulos), che si pavoneggia frivola in una nuvola di tulle nero e i ragionamenti razionali di Ecuba, che smonta pezzo per pezzo il discorso della bella spartana, ma invano, perché Menelao (Savvas Stroumbos), forse non ascolta nemmeno, incantato dalla sua lucente armatura. Nella conclusione, nessun effetto speciale, eppure vediamo Troia bruciare negli occhi di questa straordinaria Ecuba.

Gli attori, nel ritmo convulso dei respiri, ripetono un refrain caro a Terzòpoulos e frequente in poesie e canzoni: Θάρθει μια μέρα (Verrà un giorno), nelle varie lingue. Monito che annuncia l’apocalisse, maledizione contro i vincitori, oppure domanda disperante di chi è costretto ad abbandonare la patria. Ma forse anche flebile auspicio: verrà forse il giorno in cui l’uomo tornerà a guardare Dioniso negli occhi.

Gilda Tentorio

 

Le Troiane, di Euripide – regia di Theodoros Terzòpoulos
Teatro Antico di Delfi – visto il 7 luglio 2018