di Jan Fabre/Troubleyn
visto al Teatro Eliseo di Roma (Romaeuropa Festival), 16-17 ottobre 2013
in scena al Piccolo Teatro di Milano il 27 e 28 maggio 2014

La sala è immersa nel buio, unidici figure, sul fondo, iniziano a camminare, a marciare; il respiro all’unisono, accompagnato dal movimento coordinato di gambe e braccia ipnotizza lo sguardo dello spettatore. Jan Fabre calamita l’attenzione di chi guarda e, nel rendere omaggio a Richard Wagner, teorizzatore del buio in sala, ci invita a entrare nel suo modo di raccontare il teatro con The Power of Theatrical Madness, messo in scena per la prima volta nel 1984 e riproposto, a quasi 30 anni di distanza, nell’ambito del Romaeuropa Festival.

Elogio all’arte, simbolicamente dittatoriale, adorata fino a essere idolatrata, The Power ci appare uno sforzo di ripercorrere la storia del teatro chiedendo aiuto all’arte moderna e alla danza. 1876 è la chiave di accesso al palcoscenico per l’attrice che, nel tentativo più volte fallimentare di rimanere in proscenio, deve associare l’anno alla messinscena de L’anello del Nibelungo di Wagner per conquistare il palco. Due corpi si allontanano e assumono la plasticità delle statue neoclassiche. Ai lati, preservano la Bellezza.
Sancito l’inizio del percorso, le date si rincorrono, unite a nomi urlati, ridicolizzati e recitati, nel rispetto degli stili che in momenti storici differenti sono stati osservati. Nel percorso verso i giorni nostri (il 1984 di allora) The Power utilizza azioni quotidiane, camminare, baciare, ballare, come immagini al limite tra il teatro e la vita, in un’operazione in cui la ripetizione è ponte tra le due dimensioni, basate sulla reiterazione di esperienze. La stanchezza e la sofferenza fisica degli attori, che ripetono in modo esasperante le azioni, diventano reali per lo spettatore, guidato in una catarsi verso il superamento di barriere morali ed espressive.

The Power of Theatrical Madness, a un livello più profondo, è una riflessione sulla natura del teatro e sul confine labile tra teatro e vita, attraverso gesti in bilico tra act (azione) e acting (recitazione).
Le azioni ripetute anche per noi dai guerrieri della bellezza, come Fabre definisce i suoi attori – ballerini, perdono forma e ritrovano così il Bello in sè, costante nella ricerca di Fabre, rappresentazione del desiderio che cerca di sconfiggere le strutture in cui è racchiuso. La bellezza muore in scena, nel tentativo di andare oltre e sfida il concetto stesso di performance, che in Fabre è persona che per-fo-ra se stessa e l’ambiente con cui viene a contatto (Fabre, 2013).

L’autore-regista belga racconta la ciclicità della vita, attraverso i suoi guerrieri, il loro corpo, prima barriera da abbattere, per mezzo di teatro, danza, arte. The Power of Theatrical Madness è trionfo della consilience, la connessione delle arti tanto auspicata già dal Fabre del 1984, il quale, rincorrendo il superamento dell’impossibile, avrebbe detto che ruolo dell’artista è stabilire connessioni, rapporti mentali, fisici, politici e filosofici. Ruolo dell’artista è misurare queste relazioni. Ruolo dell’artista è misurare le nuvole (Fabre, 2004).

Anna Veronica Vinciguerra