Lo spettacolo Alcesti, per la regia di Massimiliano Civica, è andato in scena tra il 30 settembre e il 26 ottobre 2014 all’ex Carcere delle Murate di Firenze, per soli venti spettatori a serata (e ha vinto il Premio Ubu 2015 come migliore regia). Intorno a questa esperienza, significativa per molti aspetti, si snodano i contributi che leggerete nelle prossime pagine.
Ma perché dedicare un intero numero a un allestimento andato in scena solo per un mese, in un unico luogo, che pochissimi hanno avuto la fortuna di vedere? Perché Alcesti rappresenta, a nostro avviso, un exemplum di vitale ripensamento dell’antico, un’occasione di riflessione intorno alle possibili prassi per la messa in scena del teatro greco oggi. Così, partendo da questo particolare caso studio, abbiamo allargato gli orizzonti, indagando cosa separa una mera riproposizione della nostra tradizione teatrale da una re-interpreta-zione capace di produrre nuovi scarti di senso.
Nella prima parte, Martina Treu e Maddalena Giovannelli si interrogano sulle costanti della rappresentazione di Alcesti sulle nostre scene: molte delle proposte più interessanti degli ultimi anni hanno sistematicamente accentuato gli aspetti più ambigui e problematici del testo. Ma occuparsi di allestimento classico signi ca anche interrogarsi sull’immaginario iconografico antico: Raffaella Viccei si sofferma sulla gura di Alcesti veicolata dalla ceramica, un medium diffuso, mobile e socialmente trasversale. E guardando un antico vaso etrusco, si scoprirà un fatale abbraccio tra Admeto e sua moglie moritura.
Oltre al suggestivo apparato visivo, lo spettacolo di Massimiliano Civica vanta dalla sua anche una potente drammaturgia, curata personalmente dallo stesso regista. Dell’interessante traduzione interpretativa – che pubblichiamo integralmente nella seconda parte di questo numero – si occupa Giovanna di Martino in un ampio saggio, mettendone in luce gli aspetti innovativi e la profonda coerenza con il disegno registico. Ma la parola tragica, oggi, arriva al pubblico per lo più mediata dall’interprete: quali sono le specificità delle pratiche attoriali rivolte al teatro antico? E in che modo è possibile dare vita a personaggi che non sono definiti in senso psicologico ma che paiono piuttosto manifestazioni dialettiche del pensiero? A questo argomento è dedicato un approfondimento di Sara Urban, che ha interpellato alcuni degli attori italiani che più hanno lavorato sul genere tragico: da Franco Branciaroli a Daria Deflorian, da Arianna Scommegna a Elena Bucci. Testimonianze che aprono domande, questioni, dubbi. Ma che illuminano anche una possibile strada per riportare alla vita del palco quei testi teatrali che sono alla base della nostra cultura occidentale.