Dalla bocca dei sei danzatori in scena cola quello che sembra sangue. Sporca le magliette bianche e i jeans che indossano, mentre risuona Shape of You di Ed Sheeran. Una situazione drammatica che stride non solo con la musica, ma anche con i movimenti pacati e distesi eseguiti sul palco, caratterizzati da una grande semplicità e linearità. È uno dei quattro momenti a tema corporeo in cui si divide la performance firmata Cristina Rizzo, che si struttura come un percorso esplorativo che da un’indagine sul peso “a terra” passa all’uso delle braccia, fino ad arrivare, un pianto catartico, alla danza della testa. Tutto ciò avviene mentre in sottofondo suona una playlist del tutto antitetica rispetto ai gesti danzati: i brani scelti risultano scientemente non connessi all’azione, aperta contraddizione rispetto a ciò che si sta vedendo.
Non ci è dato sapere il perché di quel sangue, nessun elemento narrativo a spiegare ciò che accade sotto gli occhi dello spettatore, che rimane, emotivamente scosso da questa tragedia-senza tragedia, questo soffrire apparente, senza una ragione. La tensione coreografica creata da Rizzo ha un taglio fortemente teatrale: è una danza “in superficie” che mostra il definitivo superamento fisico della dittatura dell’interiorità permuovere il corpo attraverso “la percezione della pelle” e non del proprio mondo interiore. Non c’è la necessità di profondità perché nulla, dal pianto al sangue e alle vistose parrucche che i performer indossano, fa parte del piano della realtà. Anzi, la loro danza sta avvenendo all’interno di una dimensione onirica già espressa dal titolo: ultras dà l’idea di qualcosa di eccedente e di non centrato, mentre sleeping dances, rimanda esplicitamente al momento del sonno. Un viaggio in un ultramondo per riflettere sul mondo, per creare risposte sulla vita di tutti i giorni, prendendone tuttavia le distanze. È così che i danzatori trascinano con sé gli spettatori oltre la realtà. Seduti a terra lungo il perimetro della sala, diventano parte attiva della performance: non più inscritti in un uno spazio mono-relazionale, come quello della platea, ma inseriti in uno spazio ambivalente, dove i punti di vista cambiano continuamente, in stretta connessione con i movimenti dei corpi che agiscono alla stessa altezza dei loro sguardi. Un invito a immergersi in un “mondo ulteriore”, talvolta incomprensibile, ma certo seducente, catalizzante. Non lo è forse anche quello della danza contemporanea?
Rebecca Grassi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview