di Elvira Frosini e Daniele Timpano
visto al Teatro Pim Off_30 gennaio 2017

Quella degli italiani in Africa rimane una pagina di storia ancora sommersa in acque torbide: sui libri di scuola e nell’immaginario collettivo si riduce per lo più alla conquista dell’Etiopia, spesso salutata – quasi non ci riguardasse da vicino – come ennesima malefatta del ventennio fascista. Eppure l’Italia non è stata protagonista di minore importanza di Francia e Inghilterra nell’invasione dell’Africa e per un periodo molto più lungo di quello mussoliniano. Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia i territori conquistati dai soldati italiani … e chi lo sapeva? Così, quasi si stesse parlando del più e del meno in una giornata di sole al mare, Elvira Frosini e Daniele Timpano danno inizio ad Acqua di Colonia. Lo spettacolo, dopo la pubblicazione del testo per CuePress (scritto con la consulenza di Igiaba Scego) approda al teatro Pim Off di Milano a due mesi dal debutto al Roma Europa Festival. In scena insieme al duo, anche una ragazza di colore che, seduta su una piccola sedia, è testimone silenziosa di quanto accade e non interpellata dagli attori.
La prima parte del lavoro ripercorre davanti al pubblico i passi della creazione drammaturgica: innanzitutto la raccolta delle diversissime fonti attraverso cui prende forma il quadro storico che si vuole rappresentare.

Ecco allora che accanto alle citazioni di film (La mia Africa), alle canzoni (Faccetta nera, Sanzionami questo), trovano spazio anche la guida turistica dell’Africa Orientale Italiana e testi filosofici di Kant, Benedetto Croce e Hegel (le cui opinioni sui “negri” si accordano perfettamente a quelle del “barista sotto casa” dei protagonisti) e può tornare utile perfino Topolino in Abissinia che rivela l’utilizzo di gas nella guerra di conquista. Un tassello dopo l’altro Frosini e Timpano non solo compongono progressivamente eventi dimenticati, ma danno anche forma allo spettacolo stesso. La modalità espositiva non può essere dunque che una sorta di lungo discorso indiretto che ricalca, articolandole, le fasi della scrittura scenica: gli attori discutono su quali battute pronunciare, quali posizioni tenere sul palco per trovare il modo migliore di raccontare un passato che il pubblico ad oggi ancora non conosce. Ma è davvero possibile che lo spettatore sia del tutto all’oscuro di questa storia recente? Le fonti elencate sono nella maggior parte dei casi conosciute o accessibili. L’ironica complicità che i due personaggi instaurano con gli spettatori alleggerisce – ma non rinuncia a sottolineare – la responsabilità individuale per questa lacuna.

Da questi presupposti prende avvio la seconda dello spettacolo in cui, come in una sorta di avanspettacolo, si susseguono una serie di sketch, imitazioni e citazioni (da Pasolini a Indro Montanelli passando per Stanlio e Ollio) che danno vita ad alcune delle proposte emerse nella fase di creazione. Con toni irriverenti più caustici vengono denunciate ancora una volta le contraddizioni del nostro sguardo “occidentalocentrico”: il racconto del colonialismo italiano diventa quindi un mezzo per smascherare un razzismo contemporaneo e subdolo, che si nasconde, ad esempio, dietro al bisogno dell’intellettuale di “civilizzare” il proletariato ignorante. Frosini e Timpano portano sotto i riflettori i nostri moralismi quotidiani: perché ci vergogniamo di cantare Faccetta Nera (su invito dell’attrice, il pubblico infatti si rifiuta) e non abbiamo remore a trattare male un “vucumprà”? Debordante e a tratti ripetitiva, questa seconda parte porta tuttavia a compimento i presupposti metateatrali e d’impegno civile raccolti nello Zibaldino iniziale, facendo della schiettezza dei toni e dell’ironia strumenti efficaci nel disinnescare molte trappole della retorica. Come in altri spettacoli, da Aldo Morto a Dux in scatola, l’indagine dissacrante sui rimossi della storia diventa occasione per un feroce attacco ai luoghi comuni, attività (auto)critica di un teatro che può a buon diritto definirsi scanzonato e politico allo stesso tempo.

Camilla Lietti