Chissà quando spunterà il sole? Non sono in pochi a chiederselo mentre, gli occhi fissi al mare, attendono che tutto abbia inizio. Il freddo, la levataccia alle quattro del mattino per raggiungere San Foca, il pullman… Sono tutti ancora così frastornati dalla situazione che non si rendono conto di stare sbagliando direzione, che la loro è la prospettiva rovesciata di chi è arrivato e non viaggia più. Chi viene dal mare guarda verso terra, guarda a quell’edificio dismesso che sta dietro le loro spalle di spettatori. Del resto il viaggio, le Partenze dell’esperienza Italia, per molti immigrati cominciano proprio da lì, da quella costruzione che, anticipando l’alba, si illumina di colpo e, con bagliori di speranza, si fa faro, rifugio, centro dove essere accolti. Ma ancora una volta si tratta di un errore di valutazione: il Regina Pacis – così è stato chiamato il Centro di permanenza temporanea gestito fino al 2005 da don Cesare Lodeserto – non è stato certo un regno di quiete come voleva il nome, ma, al contrario, un luogo di mortificazione, un limbo che “ha cancellato tutti i sogni, belli o brutti” che fossero, di chi ci è entrato. Qui la cosa migliore che poteva capitare (si fa per dire) era la pena di una provvisorietà incessante, l’apprensione di chi ambisce ad essere ammesso nel consesso civile di uno stato straniero ed è invece costretto a rimanere isolato, apolide, senza nemmeno il diritto di protestare.

Ecco allora che nel piazzale antistante il CPT, dove nel frattempo si è raccolto il folto gruppo di attori e musicisti che ci accompagnerà in questo peregrinare per le coste pugliesi, si celebra finalmente l’eloquenza di quegli uomini un tempo muti. Slavi, africani, zingari o mediorientali non fa differenza: ciascun migrante prende il microfono e, nel proprio italiano strampalato – un novello volgare suggerisce la citazione dantesca sulla facciata del Regina Pacis – passa in rassegna i luoghi comuni, le maldicenze ma anche le azioni reali attribuite agli esponenti della propria etnia. Confermano tutto e non se ne vergognano: “Sono venuto per rubare/stuprare/spacciare” dicono con serietà. E mentre sul viso degli astanti compaiono i primi sorrisi di chi comprende il ribaltamento carnevalesco e l’assurdità mordace di questo narrare, già si insinua nei pensieri una nuova ferocissima consapevolezza: e se, invece di scherzare, parlassero così perché finalmente, dopo tanto tribolare, sono diventati anche loro, come noi, veri italiani?

Corrado Rovida

 

Partenze
regista di percorso: Ippolito Chiarello
progetto musicale: Claudio Prima
coreografie: Maristella Martella

Ph. di Luigi Burroni