intervista a Davide Manico
di Maddalena Giovannelli

“Fare questo lavoro, oggi, è un atto di coraggio e di responsabilità”. Ne sono convinti Sara Catellani, Elisa Ferrari e Davide Manico alias Collettivo Pirate Jenny: la compagnia, fondata nel 2011 e già con un percorso ricco alle spalle, sarà in scena domani 21 febbraio alle 21 nell’ambito Wonderland Festival. Allo Spazio Teatro Idra di Brescia il collettivo presenterà Vanity fair’s Snow White (finalista al premio Equilibrio 2012), una riscrittura scanzonata e ironica della favola di Biancaneve.
La ricetta di Pirate Jenny per sconfiggere le difficoltà della crisi? Non isolarsi, fare lavoro di squadra e non perdere la curiosità. Ecco come Davide Manico racconta la sfida.

Perché parlare di Biancaneve oggi? Come è nata l’idea dello spettacolo?

“Il nostro percorso creativo è sempre interamente condiviso. Dalla partitura fisica a quella musicale, firmiamo insieme ogni aspetto della messa in scena. Anche in questo caso è andata così: siamo partiti da una storia nota e popolare come Biancaneve e ci siamo divertiti a riscriverla, a ribaltare i punti di vista. Una trama molto nota permette un gioco di echi con ciò che il pubblico conosce già, e da questo nasce l’ironia. La fiaba, in particolare, offre molte possibilità per questo meccanismo di stravolgimento; il nostro prossimo lavoro – strettamente collegato a Vanity fair’s Snow White – si chiamerà non a caso Pollicino 2.0”.

Cosa definisce in modo più forte la ricerca del vostro collettivo?

“Stiamo cercando di non legarci troppo a un singolo stile, ma di metterci in discussione costantemente, di sperimentare e di essere curiosi. È una sfida di cui parla anche il nostro nome: Jenny dei Pirati (dall’Opera da tre soldi di Brecht) rappresenta per noi quell’animo sovversivo che speriamo di non perdere mai. Ecco quello che ci unisce in profondità: il desiderio di rivoluzione e di cambiamento”.

 Il vostro lavoro si muove al confine tra il teatro e la danza: è difficile per voi trovare una definizione di genere?

“Il circuito teatrale in questo momento in Italia è più accogliente di quello della danza: i festival sono più duttili e recettivi, meno bloccati su standard fissi. Noi ci troviamo proprio al confine: le nostre creazioni potrebbero essere definite di physical theatre o di teatro danza. Ma al di là delle etichette, il nostro obiettivo è sempre una comunicazione diretta ed efficace. Troppo spesso la danza di oggi allontana il pubblico, rende difficile una comprensione immediata: persino noi – che veniamo da una formazione accademica – fatichiamo a capire quello che vediamo!
Certamente portare avanti un percorso ibrido ha anche i suoi limiti: spesso la mancanza di una definizione rende più difficile la distribuzione. Ma l’importante, per noi, è la comunicazione con il pubblico”.

Come lavorate per ottenerla?

“Il primo livello è quello della ricerca di un linguaggio: componiamo cercando di non perdere di vista chi vedrà il nostro lavoro. Poi ci guardiamo in giro: gruppi come Collettivo Cinetico o Teatro Sotterraneo ci sembra che ottengano ottimi risultati in questo senso.
Last but not least
utilizziamo i social network non solo come strumento di promozione, ma anche per una vera e propria inclusone del pubblico nel processo di creazione. Interpelliamo i nostri utenti, facciamo domande, ci facciamo influenzare dalle loro risposte. Abbiamo in programmazione, per il 2015, uno spettacolo che si chiamerà Vox populi e che coinvolgerà il pubblico a più livelli”.

È difficile portare avanti e sostenere il vostro lavoro?

“Ci sono momenti difficili, certo: ma anche da quelli si impara molto. Un esempio. Con Vanity fair abbiamo ricevuto anche critiche negative, che al momento ci hanno ferito. Poi siamo riusciti a prenderne il meglio, abbiamo colto lo stimolo a migliorare e ne siamo usciti rafforzati. Quello che ci rende orgogliosi è che stiamo riuscendo a fare di quello che amiamo il nostro lavoro. E abbiamo fatto tutto da soli: è tutta farina del nostro sacco!”

 

Questo contenuto è elaborato in collaborazione con Tamburo di Kattrin