Coreografa e danzatrice, cofondatrice del gruppo Kinkaleri, Cristina Rizzo è oggi uno dei nomi più interessanti della danza contemporanea italiana. Il suo Bolero Effect – una creazione del 2014 che ha già all’attivo una fortunata tappa a Santarcangelo 2014 – ha avuto il compito di chiudere l’ultima edizione del festival Uovo lo scorso 29 marzo: 60 irresistibili minuti di crescendo (proprio come il Bolero di Ravel a cui il titolo allude) pensati in stretta relazione con l’ambiente sonoro di Simone Bertuzzi. In scena, Cristina Rizzo e Annamaria Ajmone: un efficace duo che gioca sulle evidenti diversità fisiche, ma anche sull’ascolto reciproco, sul piacere del danzare insieme. L’energia detona sul palco e si propaga progressivamente al pubblico: gli spettatori, seduti nella sala grande del Franco Parenti, faticano a stare fermi sulla sedia. L’edizione 2015 del Festival Uovo si è così conclusa all’insegna del sovvertimento delle barriere, in una danza condivisa tra performer e spettatori.

Abbiamo chiesto a Cristina Rizzo di riflettere con noi sulla situazione della danza in Italia, e su quanto le condizioni esterne di lavoro incidano sulla qualità della creazione artistica.

Come descriveresti l’ambiente della danza italiana?

“Lavorare in Italia, oggi, è difficile: l’ambiente è stretto, asfittico. Ci sono alcune tendenze che riscuotono un certo seguito, e si ha la sensazione che per riuscire ad emergere sia necessario seguirle, uniformarsi. A me piace stare in ascolto, guardare quello che sta succedendo, ma nello stesso tempo mantenere la mia identità. Cerco di seguire il mio spirito interno, di non perdere di vista le mie specificità. Un’evoluzione artistica, a mio avviso, può derivare solo dal tentativo di rispondere ad alcune domande chiave: «Perché lo faccio? E come lo faccio?»”.

E perché allora non andare all’estero, come fanno molti coreografi italiani?

“Io ho lavorato molto all’estero, già a partire dagli anni Novanta. Ma oggi sto cercando di costruire qualcosa nel luogo in cui sono nata. Certo: sembra che le istituzioni non ci tengano per niente, a trattenere i propri artisti in Italia! Si tende sempre a invitare grandi nomi stranieri, senza accorgersi che la scena italiana oggi è viva, e andrebbe valorizzata: nei nostri teatri più importanti invece continuo a vedere troppo spesso colossi internazionali come la Parsons Dance. La Francia, al contrario, sostiene la circuitazione degli spettacoli che vengono prodotti. Non possono essere solo i festival a dare spazio alle nuove proposte, sono i grandi teatri a dover osare. Credo si dovrebbe avere più fiducia nel pubblico: tutti hanno la capacità di guardare tutto!”

In questo contesto, si creano rapporti di solidarietà tra i gruppi? È utile fare rete in queste condizioni?

 “Assolutamente. Io collaboro spesso, per esempio, con Fabrizio Favale e Michele di Stefano. Dalla necessità di creare un comune habitat di pensiero è nata la Piattaforma della Danza Balinese, che ha trovato un importante interlocutore in Silvia Bottiroli e nel Festival di Santarcangelo. Nella scorsa edizione questo spazio dedicato alle pratiche della e sulla danza, pensato con la massima apertura, è stato rilevante per tutti, al punto che si è deciso di svilupparlo anche per la prossima edizione.
È sempre una ricchezza quando si riesce a lavorare insieme preservando le reciproche ‘biodiversità’. Se ripenso agli anni Novanta, però, mi accorgo che le possibilità di connessione erano molto maggiori: c’erano luoghi non istituzionali che diventavano veri e propri ‘catalizzatori’. Oggi, se si ci eccettua qualche episodio isolato come quello del Valle, non vedo più nulla del genere”.

Quali consigli allora, alle nuove generazioni?

“Mi piace molto seguire i nuovi gruppi, spesso faccio operazioni di tutoraggio. Guardo con curiosità a percorsi di approfondimento anche molto lontani da me, ma che mi paiono coerenti, profondi, come quelli di Collettivo Cinetico. Più in generale, credo che a volte inseguire le domande, i bandi, e tutti gli iter per ottenere qualche sostegno finisca per vincolare un po’ troppo la ricerca. Se penso ad alcuni gruppi della mia generazione, ricordo che ci mettevano ‘nel fare’, anche non avendo nulla, nessuna garanzia. Lavoravamo in condizioni che oggi sembrano impensabili: eppure si partiva, e avevamo dalla nostra un’autonomia totale. È importante, soprattutto per una giovane compagnia, disporre di ‘spazi liberati’, dove poter mostrare il proprio lavoro senza l’ansia del giudizio: anche sbagliare fa parte del percorso creativo. Questo favorisce lo sviluppo dei processi: poi, però, c’è bisogno del massimo sostegno per trovare maturità. Ma le istituzioni sembrano dimenticarsene…”

Maddalena Giovannelli