Le rappresentazioni del dramma antico al festival funzionano da termometro per misurare la temperie culturale greca. Ad esempio nel 2012, annus horribilis della crisi, fu il trionfo di Aristofane: quattro produzioni, con una coloritura politico-utopica. Quest’anno il grande assente è Euripide, a vantaggio di una massiccia presenza di Eschilo, con esiti diversi.

La compagnia The.Am.A. è composta da attori professionisti disabili guidati dal regista Vassilis Ikonomou: dal 2010 realizzano lavori di qualità e, per la prima volta presenti al Festival, hanno portato i Persiani, spettacolo soldout ad Atene. La tragedia di Eschilo diventa pretesto di riflessione sull’Altro: se l’anno scorso Siamo i Persiani! di Ghiolanda Markopoulou dava voce ad attori migranti e profughi, ora a mettersi in gioco sono i “diversi”, che ogni giorno lottano contro un mondo che li respinge, nutrito di stereotipi e pregiudizi. In scena c’è una corporeità, talvolta ferita o limitata, che acquista però fierezza e grandiosità. Ad esempio, il ruolo della regina Atossa si frammenta: un’attrice in carrozzina pronuncia le parole, l’altra, sorda, presta la sua fisicità, traducendo con il corpo la lingua dei segni eseguita da una terza. Una dialettica a tre (logos-corpo-segno) per dare nuova plasticità e sacralità al testo eschileo.

Il magnifico teatro antico di Epidauro ha ospitato altri due importanti momenti eschilei.
Ghiannis Chouvardàs aveva tutte le carte in regola per creare un’Orestea memorabile: lunga esperienza di regia, un cast stellare, la splendida traduzione di Dimitris Dimitriadis (scrittore, drammaturgo, poeta). L’accoglienza però è stata tiepida e poi è arrivata la stroncatura della critica. Per capire cosa non ha funzionato, occorre ricordare che per i greci il nucleo principale del dramma antico, tragedia o commedia, è il Coro. Alla riuscita di un’opera concorrono le coreografie, la cura dei registri vocali del Coro, l’alternanza sapiente di danza, musica e logos. E soprattutto a Epidauro i greci si aspettano in generale di vedere e sentire bei Cori. In alcuni casi le melodie sono diventate così famose da trasformarsi in opere autonome (penso soprattutto agli Uccelli di Karolos Koun per le musiche di Manos Chatzidakis). È attraverso il Coro che lo spettatore greco cerca la comunicazione antico-moderno. La “scuola europea” invece non ha questa attenzione e infatti spesso a Epidauro gli artisti stranieri sono stati fischiati e accusati di snaturare il cuore della tragedia antica.
Ecco perché il pubblico non ha gradito l’asciuttezza dell’operazione di Chouvardàs, che ha presentato la trilogia in formato ridotto: soltanto due ore, e dodici attori, davvero bravissimi, che si scambiano i ruoli. Il regista ha operato tagli, mantenendo il nucleo narrativo. Ma questo annullamento del Coro (soprattutto nell’Agamennone) ha sacrificato il lirismo, la solennità, il moto collettivo di un corpo unico danzante.
Non ha convinto nemmeno l’ambientazione. Chouvardàs vuole parlare all’epoca presente, caratterizzata da violenza, caos e divisione, e sceglie di ricostruire un’atmosfera anni ’40-’50, quando la Grecia era lacerata dalla guerra civile. Il riferimento immediato è al pluripremiato film La recita (1975) del grande regista Theo Anghelopoulos, rilettura del  mito degli Atridi alla luce di quegli anni terribili, ma con altri esiti di poeticità.
La fotografia seppiata di Chouvardàs invece si basa su una scena sovrabbondante di mobili, disseminati sull’orchestra antica e poggiati su listelli di parquet: lo spazio esterno di Epidauro diventa paradossalmente un salotto borghese. “Lo spirito tragico ne risulta alienato: i personaggi diventano borghesi inquieti, il Coro è annullato, i monologhi sono sviliti, la grandiosità limitata. Questo Eschilo troppo somiglia a Euripide o a una parodia della tragedia, in un’atmosfera che oscilla fra il noir poliziesco, il boulevard comico e la farsa” (Ileana Dimadi, “Athinorama”, 11.07.2016). E infatti i personaggi rischiano di diventare caricature: Clitemnestra porta un grembiule da massaia insanguinato mentre Cassandra è in abitino sexy, Elettra e Oreste inforcano occhiali dalle lenti spesse, le Erinni sono maschi con capelli lunghi, baffi e occhiali, gli dèi indossano abiti con paillettes… Le polemiche divampano: fin dove si può spingere il regista, senza “tradire” Eschilo?
Che cosa salvare di questo esperimento? Una trovata scenica: la casa degli Atridi sul fondo, quasi un armadio della Storia e organismo vivente (tutto luci, tuoni e ruggiti) che “divora i vivi e vomita i morti”, come si legge nel programma di sala. Merita attenzione l’approccio particolare alle Eumenidi. Cessa il clima retrò, Oreste rimane sulla scena mentre gli altri personaggi si uniscono agli spettatori sulle gradinate: “Qui Eschilo ci proietta nella sfera delle idee, in un cronotopo non-realistico. Ho voluto dare l’idea di un futuro utopico, futuristico: perché solo attraverso l’utopia si può pensare di annullare o gestire il circolo vizioso del sangue”, dice il regista (intervista su “To Vima”, 18.06.2016). Su tutto pesa un’ombra costante di pessimismo e delusione per l’oggi, dominato da politici pallidi e incapaci, e dalla peste indomabile della violenza. La poesia ha il diritto di sognare un finale utopico e ottimista – conclude Chouvardàs -, ma poi si ritorna alla cruda distopia del presente.

Lunghi applausi hanno accolto i Sette a Tebe di Cezaris Grauzinis, produzione del Teatro Statale della Grecia del Nord (Salonicco). Il regista lituano, arrivato in Grecia dieci anni fa, non è più partito. Ha messo su famiglia qui, lavora con i greci ed è perfettamente integrato nel panorama teatrale ellenico, a cui ha portato la freschezza di uno sguardo nuovo e curioso, attento alla musica, alla corporeità e allo humour. Ormai è un habitué anche del festival: lo scorso anno il suo strepitoso Giulio Cesare da Shakespeare, con intelligenti inserzioni meta-teatrali, aveva trovato grandi consensi.
Ora torna all’antico (la sua prima volta a Epidauro fu nel 2012, con l’Edipo re di Sofocle). Per lui la tragedia non è un monumento sacro intangibile e, pur nel rispetto dell’originale, riesce a rilevare elementi inediti.
Gli ingredienti di questo lavoro: ruolo importante del Coro (14 membri), ventaglio di tonalità musicali (dal cabaret francese ai ritmi orientali), lavoro sul corpo (ci sono anche acrobazie da circo), lampi di teatro dell’assurdo. Sulla scena minimale spiccano due scale di legno, che diventano via via trono, tribuna per arringare il popolo, punto di vedetta per scrutare il nemico, e infine tavolaccio dove esporre i cadaveri.
Grauzinis opera alcuni lievi cambiamenti rispetto all’originale, ma riesce a integrarli con armonia nella scelta drammaturgica complessiva. Ad esempio Eteocle invece di descrivere i guerrieri tebani che andranno a difendere le sette porte, li sceglie dal Coro e ognuno dei cittadini si fa avanti armandosi alla bell’e meglio: una “vestizione” a tratti ridicola e “quasi donchisciottesca” (“Efsyn”, 25.07.2016), che si risolve in un vortice di danze, ritmi, urla, con grande effetto plastico e visivo, ma anche con una punta critica al grottesco di ogni guerra.
Il regista gioca inoltre  sulla duplicità. I due figli-fratelli di Edipo, Eteocle e Polinice si somigliano come due gocce d’acqua e dunque i loro ruoli sono interscambiabili. Ecco che allora, a sere alterne, i due attori principali interpretano l’uno o l’altro, ma Polinice resta personaggio muto. È una palestra per affinare la recitazione: l’attore, in scena, vede il compagno interpretare il ruolo che sarà suo l’indomani, e può studiare, correggere, e arricchire la sua prova. L’Eteocle di Grauzinis è pieno di paure, cerca di coprire le sue bugie da politicante, e maschera di patriottismo la responsabilità tragica della decisione di affrontare lui stesso il fratello Polinice. La scena-clou è il duello fratricida, non più narrato, come in Eschilo, ma visibile in scena: è quasi una danza, uno scambio fatale di abbracci. Lo spettro della guerra civile greca di cinquant’anni fa è nell’aria e crepitano applausi commossi.
Il programma di sala colloca la tragedia anche nella stretta attualità: l’Europa vive l’angoscia e la paura quotidiana di un nemico alle porte, che può avere le vesti lacere del profugo o il mitra del terrorista. “A volte ci sembra che il nostro peggior nemico abbia il nostro stesso viso, il nostro stesso nome, come è successo nella guerra civile in Grecia. È allora che abbiamo bisogno della tragedia antica. Per riscoprire la necessità di restare uomini, nonostante la paura, l’insicurezza, la disperazione”.

Gilda Tentorio

Orestea
regia di Ghiannis Chouvardàs
8-9 luglio 2016

Persiani
di compagnia The.Am.A.
regia di Vassilis Ikonomou
13-14 luglio 2016

Sette a Tebe
regia di Cezaris Grauzinis
produzione Teatro Statale della Grecia del Nord
22-23 luglio 2016