Dopo la lettura di Teresa Vila di Contra la Fraternidad prosegue il percorso a ritroso di Calapranzi dedicato alla drammaturgia catalana. Contro l’uguaglianza (Contra la Igualdad) è la tappa centrale della Trilogía de la revolución (2017) di Esteve Soler.

Camminiamo per strada, per andare a lavoro, a scuola, a fare la spesa, a fare jogging, o per una semplice passeggiata. Non ci sentiamo soli. Gli altri fanno le nostre stesse cose. Sono come noi. Noi, come loro. Li guardiamo, ci sorridiamo, ci salutiamo a vicenda. Tutti fanno quello che vogliono, tutti sono quelli che vogliono, noi e loro. Cambia poco sulle strade virtuali, sui social network, nelle video call, nei rivenditori online. Tutti cittadini del mondo. Magari quasi tutti, è solo questione di tempo. Questa canzoncina ci tiene allegri, ci fa stare tranquilli, come il sottofondo di un aeroporto. Come un termosifone. Non stiamo lì a pensare che fuori fa freddo. Il fuori non c’è. Stiamo tutti dentro. Tutti come noi, come me.

È ora di finirla. Non siamo uguali. Anzi, quello che facciamo, quando camminiamo per strada o ci colleghiamo ad internet, ci rende sempre meno uguali. Il mondo globalizzato non globalizza altro che l’egocentrismo, lo sforzo di non essere uguale all’altro. Il nostro stare insieme diventa sempre più un non-stare insieme, uno stare-con-noi-stessi, con le nostre paure individuali, con i nostri bisogni individuali mercificati, con le nostre fedi individualistiche. Non parliamo solo di terzo o quarto mondo. Parliamo della vicina di casa. Non parliamo solo di discriminazione. Parliamo di famigliari. Uguaglianza è diventata una parola più che contraddittoria. Conosciamo il suo significato, ma non sappiamo come usarla. È inapplicabile. Non possiamo usarla per descrivere niente, neanche la morte. Neanche nella morte c’è uguaglianza. Se non la usiamo come convenzione, se la pronunciamo con cognizione, senza distrazione, ci sentiamo falsi. Sentiamo che qualcosa non va, qualcosa non torna. Manca la realtà di quella cosa. Resta un’ideale che non sappiamo più riconoscere, sappiamo pensarlo ma non vederlo, non “farlo”. Perché nella realtà, la parola uguaglianza, se l’è presa qualcun altro.

Esteve Soler (ph: Félix Méndez)

Il dramaturg Esteve Soler si è fatto carico di compiere il passo successivo. Scrivere Contra la Igualdad. Tentare di smascherare i meccanismi della (dis)uguaglianza della realtà contemporanea. A più di due secoli dall’evento in cui questa parola, accanto a libertà e fraternità, è diventata il manifesto politico che ha cambiato il nostro vivere insieme, Soler riflette su quali debbano essere i pilastri di una nuova rivoluzione sociale e politica, e decide che non saranno più quelli del 1789: anzi, essi saranno i pilastri del nemico da combattere, i principi che oggi sono stravolti a tal punto da divenire impronunciabili. L’uguaglianza non è più una parola della rivoluzione. Con la sua lingua senza nazione il drammaturgo catalano ha scelto una sfida quasi impossibile: quella di parlare della nostra società, in Trilogía de la revolución, attraverso le tre macro-categorie che l’hanno forgiata.

Sarà bene dirlo subito, questo alter-Rousseau senza più popolo riprende il centro politico della parola: non si tratta tanto di discriminazioni raziali o di genere, quanto di uguaglianza sociale! Se davvero fossimo cittadini prima ancora che consumatori, allora dovremmo essere tutti uguali: è questa la menzogna che smaschera Esteve Soler con una crudeltà inaudita nei sette quadri che compongono l’opera, una crudeltà che ci disgusterebbe se non fosse per la satira grottesca di cui è innervata. Per parlare di un tema tanto grande il drammaturgo resta fedele al numero e alla forma delle sue trilogie, proponendo sette scene fortemente emblematiche, paradossali, distopiche. Egli scrive «7 obritas Esperpénticas», rifacendosi a un genere letterario spagnolo di primo Novecento che vede la beffa e la caricatura deformare sistematicamente la realtà, esasperando gli elementi grotteschi e assurdi attraverso una serie di strategie, come la decadenza di personaggi consolidati e l’abuso del contrasto. Fra Brecht e Ionesco, Soler costruisce con pochi tratti dei quadri che starebbero in piedi da soli, ma che insieme formano un affresco di straordinaria potenza: questa varietà, unita alla deformazione macabra e alla critica sociale, ci fa associare la sua Trilogía de la revolución ai grandi quadri di Hieronymus Bosch.


Da Contra la Igualdad, 3:

COMMESSA: Non credo sia possibile.

CLIENTE: Deve essere possibile.

COMMESSA: È solo che…

CLIENTE: Per cos’altro vendereste tutte queste cose?

COMMESSA: Cioè, non è una cosa tanto pratica… Dovrei impacchettare tutto, e sono di turno da sola oggi, non so quanto ci metterò… E… Avrà bisogno di qualcuno che l’aiuti a portare tutto a casa, no?

CLIENTE: Quindi puoi o non puoi!?

Pausa.

COMMESSA: Mi faccia fare una chiamata.

La commessa prende il telefono.

CLIENTE: E la toilette per le donne?

COMMESSA: Lì dietro, a sinistra.

La cliente va alla toilette. La commessa fa la chiamata.

COMMESSA: Pronto? Ciao sono io. C’è lì il signor Martin per caso? (Pausa.) Ciao. C’è una cliente qui che vuole comprare tutto, letteralmente. Sì, sì, esatto… (Pausa.) Sì, immagino sia ricca o… È una cosa fattibile? (L’altra ride. Pausa.) Okay. Eh? Se non le vendo tutto il negozio sono licenziata? (L’altra ride.) Okay, certo…

La cliente ritorna.

COMMESSA: Sarà tutto pronto per lei a breve.

CLIENTE: No. Ho cambiato idea. L’ha detto lei stessa, non è pratico. Come fa ad imballare tutto? Come faccio a portare via tutto?

COMMESSA: Certo che si può. Parlerò io con la nostra compagnia di trasporti. E chiuderemo la boutique per lei.

CLIENTE: Scusi, ma ho cambiato idea.

COMMESSA: Ha…? Guardi che non c’è problema, davvero, lo ha detto anche lei che siamo fortunati che lei…

CLIENTE: Senti, cara, ciò che davvero volevo era guardarti mentre impacchettavi tutto, ed essere io stessa “impacchettata” in quel senso di soddisfazione e contentezza mentre portavo giù per la strada tutte quelle borse in mano…

COMMESSA: Sarei molto felice di fare che tutto questo accada davvero, per lei

CLIENTE: Però stavo pensando… Forse qualcosa di più pratico.

COMMESSA: Come le dicevo, mi basta fare una chiamata al ragazzo delle consegne e sarà tutto pronto in un batter d’occhio.

CLIENTE: Dopo tutto… Non penso di volere tutto questo. Quello che voglio è sentire un certo qualcosa… Quando compro una cosa, lo faccio per tirarmi su di morale. Mi sento giù, compro e l’umore migliora. Ma dopo un po’, quella sensazione è volata via. Mi capisci, vero?

La commessa fa uno sforzo.

COMMESSA: Certamente…

CLIENTE: Vedi, più compro, e più è costoso quello che compro, più forte è la sensazione, e più a lungo dura. E io ho bisogno che duri. Il più possibile.

La commessa non è sicura di capire.

COMMESSA: Oh… Chiaro…

CLIENTE: Riesci a immaginare come sarebbe se quella sensazione non finisse mai?

COMMESSA: Certo, cioè, logico…

CLIENTE: Ho deciso che pagherò tutto ma lascerò tutto qui.

COMMESSA: Che?

CLIENTE: Mi hai sentito. Pagherò per tutto. Extra.

COMMESSA: Oh. Beh, questa è un’idea ancora migliore.

Ridono entrambe.

CLIENTE: Nel caso te lo stessi chiedendo, non sono pazza… La verità è, ciò che davvero voglio è la tua dignità.

COMMESSA: Cosa?

CLIENTE: La tua dignità. Tutto qui. Ecco quello di cui stiamo davvero parlando.

COMMESSA: La mia dignità?

CLIENTE: Sì. Non posso pagarti tutto questo e uscirmene di qui con niente. Voglio una sensazione che duri. Ho bisogno di allontanare le mie sofferenze il più a lungo possibile.

COMMESSA: Come funziona esattamente? Vuoi che ti scriva una ricevuta, per la mia dignità?

CLIENTE: Oh, se solo fosse così facile, vero, gioia?

La cliente tira su la sua borsetta e ne mostra il contenuto alla commessa. Pausa.

COMMESSA: Tu sei pazza. (Pausa.) Cosa vuoi fare con quell…?

CLIENTE: Rilassati.

COMMESSA: È tuo…? (Pausa.)

CLIENTE: È mio.

COMMESSA: Proprio quello che… lì…? (Pausa.)

CLIENTE: Sì.

COMMESSA: Ma… è uno stronzo. (Pausa.)

CLIENTE: Sì. È uno stronzo. (Pausa.)

COMMESSA: Che ci vuoi fare?

CLIENTE: Non aver paura. Sarà meno penoso di quanto immagini.

COMMESSA: Che diamine…?

CLIENTE: Voglio che lo mangi.


Inutile dire come andrà a finire questa scena. Il meccanismo è semplice e chiaro, perciò così forte e avvincente: portare all’eccesso una contraddizione come l’uguaglianza a un livello tale da provocare disgusto, fino a deformare il presente e a distruggere ogni nostra fede nell’umanità. Quando la cliente entra nel negozio, la situazione ci è più che familiare, ma poi la donna ricca vuole comprare tutto, ma poi non vuole solo comprare tutta la merce, vuole comprare la dignità, vuole comprare una persona, vuole comprare l’uguaglianza. Se comprendiamo e diamo plausibilità a questo episodio, vuol dire che siamo già in una falsa uguaglianza, in un’eguaglianza degradata a merce. L’apice del disgusto, allora, sarà rivolto prima di tutto verso noi stessi, secondo una modalità molto simile a quella portata sullo schermo da un film rivelatorio come Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Basta una scena come questa a cancellare secoli di bei principi, di cittadinanza, di Europa. A segnalare che qualcosa è andato storto. A far emergere la necessità di una rivoluzione, a cui forse non siamo ancora pronti.

Con Soler capiamo quanto il teatro possa tornare a essere strumento di vera democrazia, o di riflessione politica attiva, pur attraverso una forma tanto paradossale: quale mezzo più potente di un palco e due persone può offrirsi allo spettatore per decostruire e ripensare il concetto di uguaglianza? Il dramaturg catalano lo sa bene e non a caso la maggior parte dei quadri o si compone di coppie in dialogo o comunque ruota attorno alla non-uguaglianza fra due personaggi. Del resto il dialogo teatrale affonda le proprie radici nella contraddizione e collisione fra condizioni e dimensioni esistenziali: in questo caso esso si fa tanto aforistico e universale da far combaciare quella contraddizione formale con la contraddizione socio-politica globale. Per questo legame profondo con gli elementi primari dell’arte drammatica, le trilogie di Soler (e quindi anche la Trilogía de la indignación del 2007) si pongono come strumento essenziale per ripensare il teatro nella sua funzione assembleare e politica.

La Trilogia dell’indignazione andata in scena al Napoli Teatro Festival 2020 per la regia di Giovanni Meola (ph: Guglielmo Verrienti)

Il mondo funziona come il teatro, anzi la realtà si rivela ogni giorno più teatrale, parodica e contraddittoria. Per questo ciascun quadro scenico non è legato a un tempo o un luogo specifico: re nudi convivono con scorci alla Black Mirror. Questa universalità ci riporta al tema di fondo: l’uguaglianza, quello che è rimasto di questa parola, ci rende meno umani, meno responsabili di noi stessi, meno liberi. La violenza di Contra la Igualdad è tutta qui, nel mostrare quanto disumani siamo diventati, nel dirci quanto non abbiamo imparato dagli errori e quanto il potere assuefà ognuno di noi, le nostre abitudini.
Per questo la drammaturgia si apre con un bambino di cui i genitori vogliono liberarsi per via di un tasso di avidità troppo basso. E neanche il mondo angelico ricalcato su modello cristiano può risultare egualitario, nel secondo quadro, se dipende da un sistema di pensiero e di realtà chiuso in se stesso. A smascherare la disuguaglianza in una coppia di fidanzati che sfamano il loro intimo desiderio di onnipotenza sessuale nel segreto di piccole menzogne è, nel quarto, quadro addirittura un peluche. Nella penultima scena, invece, uno squarcio di dialogo fra una donna di mezza età e un’operatrice del terzo mondo, pagata per fare da futuristico “specchio delle mie brame” e per garantirle la falsa superiorità morale della sua padrona, lascia il lettore-spettatore profondamente turbato.
Ma è l’ultima obrita Esperpéntica a lanciare il pugnale più affilato alle nostre convinzioni. L’unico momento lirico arriva infatti alla fine, sfruttando al massimo le macerie delle sei scene alle sue spalle. Non si tratta di un monologo, come sembrerebbe, ma di un vero dialogo con il pubblico. Niente più manifesti, niente personaggi distorti o grotteschi. Un uomo solo, un senzatetto sporco e malconcio che ci guarda dritti negli occhi, riemerso dalla terra della sua tomba. Non uno zombie, quelli siamo noi. Il riferimento alla guerra civile spagnola serve solo al contesto narrativo, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra guerra europea, anzi mondiale. L’uomo è un morto più vivo di noi, sopravvissuto agli anni, riemerso dalla terra di una fossa comune con cui non si è potuto mischiare, fondere. L’umanità non ha più niente a che fare con la natura, dice Soler a Rousseau. L’uomo ci guarda negli occhi e ci chiede, dal suo 1936, cosa ne è stato dell’uguaglianza:

È possibile che sia meglio essere morti come me che morti come Carla. Io sono definitivamente, irreversibilmente morto. Carla è un morto vivente. Ha dovuto ballare sulla lama che ha fatto a pezzi il nostro paese. Che non sarà mai ricostruito, rimesso a posto. Chiunque ci provi è dannato. Perché non dovrebbero dimenticare le tombe? Anche se lì dentro siamo ancora vivi… Tutta la carne mescolata con la terra lì, dentro le tombe, è la stessa carne che riempie i portici delle banche di notte, la stessa carne che sporca le strade, che scorre nelle vene dei responsabili, che nutre i feti fascisti, che imbratta le bandiere di merda, tutte le bandiere, le bandiere di prima, le bandiere che sventolano ora, e quelle che si avranno e che voleranno domani.

Breve pausa. L’Uomo si rivolge a un individuo del pubblico.

Dove sono sepolti i tuoi morti? Immagina di avere i tuoi morti qui, in piedi, davanti a te, immagina di aver scavato le loro tombe, di aver profanato le loro tombe, hai aperto le bare e li hai fissati in tutta la loro puzzolente gloria, nera e putrida. Portali in un luogo dimenticato e consegnali alla terra. Abbracciali e di’ loro che tu sei morto quanto loro, e che non c’è fine a tutto questo, e non preoccuparti di riempire tu le tombe, quaggiù sempre più carne finirà sepolta, è uno spreco di tempo, è un lavoro inutile, il futuro le riempirà automaticamente, è così che facciamo le cose da queste parti.

Nemmeno la morte ci rende uguali. E non c’è più speranza per la cara, vecchia uguaglianza. E noi? Cosa rispondiamo? Cosa vedremo domani mattina, appena usciti di casa?

Riccardo Corcione


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente in spagnolo e in catalano con una mail a [email protected]