“In una favola intervengono animali o oggetti che parlano e agiscono come esseri umani”. Ce lo ricorda, ancora prima di cominciare, Bufali: una favola urbana, primo episodio (insieme a Leoni e Giraffe) della Trilogia degli animali scritta e diretta tra il 2008 e il 2010 da Pau Mirò, attore, drammaturgo e regista catalano vincitore, tra gli altri, del Premio Ubu “Miglior testo straniero” nel 2013 con I giocatori, tradotto e messo in scena da Enrico Ianniello. Insieme agli altri autori fin qui trattati nel nostro Focus Catalogna – Carles Batlle ed Esteve Soler –, Pau Miró è parte integrante dell’alveare barcelonés per la drammaturgia contemporanea, la Sala Beckett.
Tutti gli episodi della Trilogia degli animali ripercorrono in veste favolistica i cambiamenti subiti da Barcellona negli anni che vanno dalla fine del franchismo fino ad oggi, restituendo in ogni episodio il racconto in presa diretta di storie marginali che, con un salto centripeto, diventano subito il centro focale della nostra attenzione. Costruito come una vera e propria narrazione – i fatti sono raccontati al passato da cinque fratelli – Bufali sfalda i meccanismi canonici del testo teatrale, affidando il racconto a nessun personaggio in particolare: i nomi dei personaggi non sono indicati, le battute sono distinte soltanto da un segno grafico (un rientro della prima frase), le voci si mescolano come parti di un unico monologo che non lascia spazio ad alcuna caratterizzazione dei personaggi. Perché quel che più importa, qui, è il racconto di una storia, la storia di come i meccanismi violenti, sconnessi della realtà e gli angoli trasandati della società non lascino scampo a nessuno, essere umano o animale che sia.
Bufali è la storia di una famiglia che gestisce una vecchia lavanderia – non ancora a gettoni – in un quartiere difficile, dove i bufali devono stare all’erta ogni istante per non incorrere nel pericolo di essere sbranati dai leoni. Ci sono la madre, il padre e sei tra fratelli e sorelle. Una notte uno dei figli, Max (l’unico ad avere un nome), sparisce. Tutti gli altri restano lì, a dover convivere con quella ingombrante assenza che i genitori decidono di affogare nel silenzio. Max è stato portato via da un leone, e non tornerà più. Da lì in avanti nessuno entra più nella sua camera, in casa non si fa più il suo nome, la sua scomparsa cade nel silenzio. Ognuno cerca di reagire come può, ma nessuno riesce ad affrontare realmente il problema. La madre sostituisce la chiesa col bingo, il padre passa sempre più tempo rinchiuso nel suo laboratorio in cui a nessuno è concesso entrare, i figli, per estirpare quel dolore misto a rabbia e cancellare il rumore del silenzio, trovano pace e ristoro in un gioco di violenza quotidiana: si picchiano, per scherzo, si scornano, ridono, sempre più forte, fino a che uno dei fratelli si rompe una costola. Da quel momento non più botte tra loro, solo scorribande verso i più deboli che incontrano fuori. Poi una notte la madre, che «fu la prima a tornare a sorridere», non ce la fa più. Scompare, così come era scomparso Max. Non si sa se sia morta, se sia stata portata via da un leone, se li abbia abbandonati. Non si sa, e non si chiede di sapere.
Da Bufali: una favola urbana
Senza soldi non c’era erba,
né vestiti, né rami, né libri.
Papà rinchiuso in laboratorio
e noi a sbattere le corna contro i muri,
senza istruzioni,
incapaci di digerire la rabbia
che si mischiava alla tristezza
che si mischiava al silenzio.
Non potevamo vivere fuori dalle quattro pareti della lavanderia
perché eravamo troppo fragili,
perché non avremmo saputo tenere il ritmo della mandria.
E non potevamo vivere neanche dentro la lavanderia,
perché il silenzio ci aveva sedato la curiosità,
perché non capire cosa fosse successo e cosa stesse succedendo
ci aveva atrofizzato l’allegria e i nervi,
e ci limitavamo a sederci e a contare i clienti,
che, malgrado fossero scarsi, volevamo comunque uccidere, schiacciare uno per uno.
Smettevamo di ruminare, ogni giorno più magri, smettevamo di ruminare.
E questa condizione, questo degrado delle articolazioni,
questo abbandono dell’anima,
questo abisso che era così denso e profondo
sembrava non avere fine.
Per fortuna ci raccontavamo barzellette tristi.
Direi che le barzellette tristi
ci hanno salvato la vita.
Il mistero della scomparsa con cui si è aperto il testo continua lungo tutta la sua durata, alimentato dalla coltre di silenzio che si attorciglia intorno a tutti, compreso chi legge o ascolta. Vero e proprio leitmotiv, il silenzio sembra essere, nella trilogia di Pau Miró, un ospite sempre presente in mezzo ai personaggi: continuamente interpellato nel tentativo di esorcizzare il suo stesso ingombro. Persino la pièce che chiude la trilogia, Giraffe, ha come protagonisti questi animali che per comunicare non utilizzano le corde vocali ma gli infrasuoni, dando l’impressione di essere fissati in un algido silenzio. E il silenzio, si sa, è mistero. Bufali è interamente costruito su un mistero che, continuando ad avvilupparsi su se stesso, ne genera altri, che lasciano il lettore in un costante stato di suspense, inglobandolo nello stesso groviglio di domande che i cinque fratelli non riescono a sbrogliare: cos’è successo a Max? Dove è sparita la loro madre? E perché quel branco di leoni non li ha attaccati quando li hanno incontrati una sera, indifesi, in un vicolo cieco? Alla fine, però, c’è qualcuno che vuole sapere. Una delle figlie spezza il silenzio, parla prima col padre – che subito dopo, improvvisamente, sparisce – poi continua a sciogliere le parole, raccontando a uno dei fratelli (e a noi) tutto quello che per anni era stato taciuto: «Papà fece un patto con i leoni: la vita di uno dei suoi cuccioli, perché fossero lasciati in pace gli altri. Questo tipo di accordi sono all’ordine del giorno nel quartiere dove siamo cresciuti».
Se il testo può sembrare un po’ sbrigativo e piano nel finale, in cui tutte le domande che il lettore si è posto finora vengono risolte, l’agnizione non toglie potenza alla narrazione accattivante che si è dispiegata fin qui. E se più volte si è portati a pensare che l’autore sceglierà di lasciare intatta la coltre di dubbio (interessante e puntigliosa allo stesso tempo), lo svelamento finale aggiunge al testo una piacevole sensazione di conoscenza, lontana da un qualsivoglia effetto moralistico, Non solo perché di morale non ce n’è (l’unica morale possibile potrebbe essere: “il mondo non funziona”; oppure, al massimo: “ognuno cerca di fare del suo meglio, ma il risultato è sempre e comunque che il mondo non funziona”); ma anche perché la scrittura cesellata di Pau Miró genera un ritmo che impedisce la situazione del dramma aneddotico.
Pur se calato fortemente nella realtà, Bufali riesce nell’intento di mantenere il distacco tipico della favola, descrivendo fatti terribili con una parola leggera. È l’autore stesso a dire di sé: «se dovessi mettere un’etichetta alla mia scrittura, direi che, in generale, scrivo tragedie leggere». Ed è forse questa commistione di violenza e leggerezza, unita alla scelta di rendere protagonisti degli animali, che ha stimolato la messa in scena di Bufali, compiuta nel 2019 da Emilie Flacher, regista francese da anni impegnata con la sua compagnia (Arnica) ad avvicinare il teatro di figura e la scrittura contemporanea. Questo tipo di ricerca, a cui il teatro di figura contemporaneo si sta da tempo rivolgendo, sembra permettere l’incontro della drammaturgia nel suo senso più ampio: tentativo di rendere oggetto e parola, visione e senso un unicum sorretto da levità che hanno la forza di tenaglie.
Bufali del resto è un congegno testuale che non sembra lasciare scampo, né ai suoi personaggi, né allo spettatore. Eppure, il fatto stesso di scrivere, raccontare, denunciare una condizione che appare inevitabile è l’implicita soluzione che l’autore sembra suggerire: quando l’efferatezza si insinua nelle maglie del quotidiano, è forse il passo lieve del racconto a sorreggere con tenacia il nostro sforzo immaginativo.
Francesca Di Fazio
Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente in spagnolo e in catalano con una mail a [email protected]