«Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri». Lo scriveva Susan Sontag in una delle prime pagine di Davanti al dolore degli altri (2003), chiedendosi fino a che punto sia possibile condividere una sofferenza quando se ne è solamente spettatori. «Noialtri, che lo vogliamo o no, siamo tutti voyeur», aggiungeva, per poi chiosare in conclusione: «Noi, e questo “noi” include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato – non capiamo». A pensarci, c’è da sentirsi scomodi, mentre applaudiamo (con convinzione) alla prima nazionale di Giulio meets Ramy / Ramy meets GiulioDopo due rinvii, lo spettacolo di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani – ovvero Babilonia Teatri – ha debuttato a fine febbraio al Teatro Fabbricone di Prato. 

Il titolo (e insieme la sinossi, col senno di poi provocatoriamente ingannevole) ci aveva promesso un incontro, e così ci siamo seduti a teatro pensando di conoscere una parte della storia. Magari avevamo già visto in passato il teatro coraggioso dei Babilonia – un teatro scoperto, proprio come il palco spoglio che ci siamo trovati davanti da subito, senza quinte, a mettere in scena registi, tecnici e strumenti accanto al protagonista. Forse, sulla strada per il teatro, abbiamo anche provato a ipotizzare come Giulio – Giulio Regeni – sarebbe potuto entrare su quel palco, e prendere parte a quell’incontro; e probabilmente abbiamo anche avuto paura, perché è problematico pretendere di incontrare qualcuno che non c’è più, poiché è stato rapito, torturato, ucciso. Poi ci siamo seduti.

foto: Eleonora Cavallo

Senza fare l’errore di cui diceva Sontag, però, definiamo questo noi. Siamo sicuramente spettatori di teatro, con buona probabilità italiani, o perlomeno parlanti italiano. Siamo anche consapevoli che nel gennaio 2011 ebbe inizio nelle piazze egiziane una rivoluzione. Sappiamo poi che nel gennaio 2016 un dottorando italiano dell’università di Cambridge fu arrestato e torturato, per poi essere trovato senza vita dopo pochi giorni, il 3 febbraio. Infine, sicuramente, sappiamo che il 7 febbraio 2020 l’attivista egiziano Patrick Zaki, studente all’università di Bologna, è stato arrestato dai servizi segreti del suo paese e ha subito un anno e dieci mesi di carcere duro; al momento è in liberà provvisoria, in attesa di un’udienza definitiva a oggi continuamente rimandata.

Ci bastano pochi minuti, però, per realizzare che non avevamo capito niente, e che la prima chiave di tutto il lavoro stava già in quel titolo, nella sua capacità di fuorviarci. A dircelo è la voce monocorde, simile a un generatore automatico, di Valeria Raimondi: accanto a Enrico Castellani è seduta a un tavolo tutto a sinistra della scena; le parole del testo scorrono sullo schermo in fondo al palco. Ascoltiamo, leggiamo e misuriamo una prima, incolmabile distanza: quella posta da una narrazione metallica, distaccata, di continuo mandata a capo – una prosa mancata, che da una parte rincorre la sospensione del verso poetico e che dall’altro cerca la perentorietà di un manifesto (molti testi dei Babilonia, del resto, sono così: dichiarativi e paratattici). Con le sue parole Raimondi non seduce, non avvicina, ma si allontana: non ci sarà la storia di nessun italiano; non percepiremo la nostra vicinanza a una tragedia, né parteciperemo a quel dolore contando il numero dei nostri coinvolti. Ci aspetta, invece, una storia altra, ed è solo dopo questa introduzione che Ramy Essam può prendersi il palco, e che noi possiamo incontrarlo. 

Ramy è un cantante rock e un attivista per i diritti umani; è egiziano, ma oggi vive tra la Svezia e la Finlandia, in esilio dal 2014. Nel gennaio 2011, nei giorni di Piazza Tahrir, era sui palchi della rivoluzione, a cantare i suoi brani e a sentirli cantare dai manifestanti. È lui, con la sua stessa voce, a raccontarci questa storia. Sulla nostra destra, speculare al tavolo di lavoro dei due registi, siedono Luca Scotton, direttore di scena, e Amani Sadat, giornalista: è lei a tradurre per noi le parole di Ramy. L’italiano, che non si sovrappone mai all’arabo, segue e costruisce un racconto parallelo. Lo sdoppiamento è efficace e necessario, perché ci lascia il tempo di ascoltare una lingua che non è nostra, di percepirne tutta l’estraneità e poi di provare a colmarla in traduzione. Anche le canzoni di Ramy, che giustamente hanno largo spazio, sono sottotitolate. Al centro del palco, dietro all’asta del microfono, i ricci neri di Ramy e la sua chitarra scontornano nettamente la sua sagoma in controluce. Se la musica che sentiamo ci indurrebbe a tenere il tempo, a ballare, le parole che leggiamo invece bloccano ogni movimento: quella che nel singolo spettatore è una semplice contraddizione di stimoli nervosi, in noi, nel pubblico, si traduce in applausi sincopati alla fine dei vari brani. Vanno applaudite, queste canzoni? Si può interrompere tutto questo – Ramy che si prende sulle spalle il peso di un verso contro Hosni Mubarak; che denuncia la violenza della polizia o del carcere; che chiede «pane, libertà, giustizia sociale» –  si può interrompere, per un applauso?

foto: Eleonora Cavallo

Mentre noi ci chiediamo quali riti teatrali valgano ancora, i Babilonia invece dimostrano di sapersi muovere e ambientare perfettamente, in questo spazio ibrido in cui noi ci siamo ritrovati nell’ambiguo ruolo di spettatori del dolore. La scelta registica è precisa: mimetizzarsi, sparire, e poi improvvisamente tornare visibili, solo per un attimo, per riportarci confusi nei canoni del teatro. Per la maggior parte del tempo, Raimondi e Castellani sono registi a margine di un concerto; musica e racconto tracciano una storia senza copione, già mandata a memoria dal protagonista nel tempo vero della biografia. Nel 2011, per esempio, Ramy cantava nelle piazze anche i cori degli ultras egiziani: le frange dei rivoluzionari più attivi spesso coincidevano con quelle dei tifosi più affezionati, e così i canti degli stadi si trasformarono in inni per il popolo. Dal palco comincia a farcene ascoltare uno, quando a un tratto una traccia audio registrata gli si sovrappone: è un doppione della sua stessa voce, che canta quelle stesse note ma accompagnata da decine di migliaia di persone. Sullo schermo è proiettato un video: è di undici anni fa, Ramy ha i capelli corti e tutta la piazza lo segue. È in questo cortocircuito – noi qui seduti, loro lì manifestanti, lui sdoppiato tra ieri e oggi – che agiscono i Babilonia; perfino Ramy stringe i pugni e smette di cantare e di suonare, lasciando solo la voce di allora a riempire la sala. Nel silenzio, poi, le luci si abbassano sul tonfo violento di una decina di palloni da calcio, improvvisamente caduti dall’alto, a stendere su quel momento di furore rivoluzionario un simbolico, efficace, sipario invisibile.

Quando il dolore è troppo forte, troppo vicino, la sua rappresentazione ci sembra un oltraggio – lo diceva sempre Sontag. E infatti, mentre noi siamo spettatori per tutto il tempo, Ramy a un certo punto esce di scena. Enrico Castellani si fa carico del racconto, ma anche in questo caso, come era successo all’inizio, prima di tutto deve mettere il pubblico a distanza, allontanarlo. Comincia a parlare senza rivolgersi a noi, anzi dandoci le spalle: Raimondi lo inquadra con una telecamera, il cui video è trasmesso sul grande schermo, quasi a farne un reporter in diretta da un altrove. È solo altrove, infatti, che possiamo collocare la storia che stiamo per ascoltare, la storia di una canzone scritta nel 2018 e che oggi Ramy non canta più: per quelle parole sette persone sono state arrestate e l’autore del videoclip è stato ucciso. È solo in un altrove che ci risulta comprensibile la narrazione, che possiamo dare una parvenza di significato a parole come tortura, esilio, prigionia politica. Se fossero concetti collocabili qui, per davvero, faremmo anche noi come Ramy: usciremmo. Invece restiamo, assistiamo, pensiamo di poter capire.

foto: Eleonora Cavallo

Ramy torna sul palco e canta di nuovo; molti sono testi recenti, scritti in Europa. Solo alla fine, mentre Essam, la traduttrice e i due registi si allineano sul palco innalzando quattro fiaccole accese, può esserci uno spazio per Giulio. Ramy e Giulio non hanno niente in comune, forse solo una data: il 25 gennaio 2011 Ramy andava in piazza Tahrir; il 25 gennaio 2016 Giulio usciva per l’ultima volta dalla casa in cui non sarebbe più tornato. Questo, solo questo, è il loro incontro a teatro, affidato al silenzio di un testo scritto, proiettato dietro le quattro figure. Ancora una volta noi leggiamo e stiamo sbagliando, credendo nostra una storia che tale non è: stiamo ancora guardando un dolore di cui ci pensiamo partecipi; ancora ci ostiniamo a negare la nostra estraneità, tentando di sublimarla in empatia. Ma no, noi non capiamo. Ramy, tra gli inchini finali, ci dice anche un grazie in italiano. Chissà cosa diventa quel noi, noi che non possiamo cantare nessuna delle sue parole, per lui.

Virginia Magnaghi


foto di copertina: Eleonora Cavallo

GIULIO MEETS RAMY / RAMY MEETS GIULIO
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Ramy Essam, Enrico Castellani, Valeria Raimondi e Amani Sadat
direzione di scena Luca Scotton
produzione Teatro Metastasio di Prato

visto al Teatro Fabbricone, Prato, febbraio 2022