ideazione e regia di Ulrike Quade e Nicole Beutler
visto al Teatro Verdi di Milano _17- 18 maggio 2013

Da cento anni esatti, nel Quartiere Isola, il Teatro Verdi resiste agli assalti dei grattacieli, dei lounge-bar, delle trattorie rustico-chic: questo piccolo gioiello di architettura teatrale festeggia infatti nel 2013 il centenario dalla fondazione, in felice concomitanza con il bicentenario verdiano. Anche quest’anno la programmazione, ben curata dal direttore Giordano Sangiovanni, onora il lungo sodalizio col Teatro del Buratto ospitando, oltre alle proprie produzioni, il benemerito IF- festival internazionale di teatro di Immagine e Figura, che da anni propone il meglio del teatro di animazione in varie forme e lingue (si veda ad esempio La semplicità ingannata, di e con Marta Cuscunà, recensito da Stratagemmi il 26 marzo 2013).

La sesta stagione di IF festival (che si chiuderà il 30-31 maggio con Circumvesuviana) ospita l’unica tappa italiana (in una tournée europea ancora in corso) della sorprendente Antigone delle olandesi Ulrike Quade e Nicole Beutler. Come spiegano loro stesse sul sito teatrodelburatto.it, le due registe affrontano il capolavoro sofocleo attingendo alle rispettive aree di ricerca, il teatro-danza e la tradizione giapponese del Bunraku (qui rivisitata ad hoc da Watanabe Kazunori): e va detto che queste marionette ci inquietano già nella foto della locandina, e ancor più in scena, per le dimensioni quasi umane (sono alte circa 120 centimetri), per i corpi eterei e longilinei, per il volto cereo e diafano, con gli occhi spalancati e vuoti (senza pupilla, né fessura, né colore). Sembrano spettri quando scivolano, aleggiano e volano sul palco, manovrati a vista dagli attori in punti-chiave come la giuntura del collo, le estremità delle braccia, le gambe.

E proprio in questo movimento ‘a vista’ troviamo il tratto più originale dello spettacolo, ossia l’intenzionale contrasto tra la ieratica fissità dei pupazzi e la mobilità estrema degli attori: a differenza dei burattinai tradizionali, che restano nascosti per non svelare il ‘trucco’ della marionetta, qui gli attori non solo sono ben visibili in scena mentre animano i tre personaggi (il soldato Polinice e le sorelle Antigone e Ismene), ma con loro dialogano, interagiscono, si fronteggiano in una dialettica che si addice perfettamente alla tragedia greca. Rispetto ai pupazzi gli attori umani evocano di fatto un livello superiore, una dimensione ‘altra’ e sovrumana: così a tratti possiamo vedere in loro il coro dei vecchi di Tebe – che nel dramma originale accompagna i personaggi e commenta l’azione – o la forza bruta di Creonte, che vieta ad Antigone di seppellire il fratello, la cattura e la condanna a morte. Ma i burattinai qui sono anche dèi, creatori, personificazioni del destino, forze incomprensibili che muovono i personaggi – col loro consenso o loro malgrado – e ne determinano le azioni.

Quest’ultimo aspetto in particolare (ben più delle poche frasi sussurrate dagli attori, o degli scarni testi italiani dei sovratitoli proiettati in scena), ci sembra l’eredità più concreta della tragedia greca in questa anomala riscrittura. Lo possiamo vedere già nella prima scena, che rievoca l’antefatto della vicenda: i pupazzi delle due sorelle compaiono ai lati del proscenio e rimangono inerti, sui piedistalli, mentre sul fondo un giovane attore entra in scena reggendo il soldato Polinice. È lui ad aprire lo spettacolo muovendosi dapprima incerto, come un automa appena attivato. Poi il pupazzo lentamente alza la testa all’indietro, risalendo con lo sguardo dalla mano alla spalla, e sobbalza nel vedere dietro di sé colui che lo anima e lo fa vivere. Polinice lo fissa a lungo, implorante, quasi a chiedergli il permesso di muoversi per suo conto. Ma all’attore si affiancano le due donne, che prendono la marionetta rispettivamente per le braccia e per le gambe: insieme danno vita a una folle danza di guerra, accompagnata da una musica techno assordante e da forti rumori di spari (è l’inizio del video dello spettacolo, disponibile sul web). La sequenza (forse un po’ troppo lunga, per il nostro gusto) si interrompe bruscamente con la morte in battaglia di Polinice, qui rappresentata come il volo interrotto di Icaro: la marionetta trafitta e folgorata si libra nell’aria, viene deposta amorevolmente a terra, ci strazia con i suoi ultimi sussulti prima di spirare.

Con questo prologo contrasta fortemente il successivo dialogo, intimo e sussurrato, tra le due donne e i loro pupazzi: e per il loro aspetto ci domandiamo se sia uno stereotipo ormai assodato e condiviso a farci riconoscere Ismene nell’attrice bionda e nella sua marionetta – aristocratica, in elegante abito azzurro e treccia a chignon, anch’essa bionda – e Antigone nella bruna vestita alla zingara, con i lunghi capelli neri raccolti da una fascia, e nella ‘sua controfigura umana’. Non ne sentiamo le parole, ma intuiamo il contenuto: seppellire o meno il morto Polinice, traditore della patria, contravvenendo all’editto di Creonte? Antigone rimane sola in scena, e si rivolge ancora una volta all’attrice dietro di lei, che le dice: “You lead. Go on. I follow you”. La scelta di Antigone è rievocata dai tre attori con un’impressionante danza ritmata, a mio parere piuttosto incongrua e inspiegabile dato il contesto. Forse può aiutarmi a capire il programma di sala, con testi tratti dall’Antigone di Sofocle e di Anouilh, e una canzone di Johnny Cash, “I won’t back down”: nelle intenzioni delle registe, evidentemente, Antigone ancora oggi rappresenta tutti quelli che non si tirano indietro ma hanno il coraggio di farsi avanti, di mettersi in gioco.

Comunque sia, dopo la danza, Antigone si china sul corpo dell’attore disteso per terra, lo ricopre amorevolmente con un mantello e si accascia su di lui. Rimane così, sola, per la prima volta senza la sua ‘compagna umana’, finché l’attore sotto di lei la rianima e la fa rialzare, lentamente. Ma questa volta la mano che regge la marionetta è invisibile, e l’illusione è completa: vediamo solo una giovane donna che compiange il fratello morto. A questo istante sospeso di dolore silenzioso segue, ancora una volta con forte contrasto, la scena più forte dello spettacolo (di cui si può vedere un breve estratto nel video sopra citato): Antigone colta sul fatto mentre compie il rito funebre è trascinata da Creonte, ma a differenza di quanto accade in Sofocle, non ha qui l’opportunità di difendersi a parole. D’un tratto i tre attori l’afferrano e la scuotono con violenza inaudita, la malmenano, le tappano la bocca, la immobilizzano e la scaraventano a terra, mentre si divincola disperatamente e cerca di urlare. Una lotta corpo a corpo che ci sembra eterna e che facciamo fatica a guardare: perché esprime senza parole, con una brutalità insostenibile, la resistenza dell’individuo alla sopraffazione, la ribellione contro il destino, il coraggio di una scelta. Alla fine, con un altro gesto di semplicità agghiacciante, gli attori appendono la marionetta al cappio: fino alla fine dello spettacolo resterà lì a penzolare sul fondo, letteralmente inanimata e senza vita, coi lunghi capelli neri sciolti sul capo riverso.

Intanto, sul proscenio, i tre attori indossano occhiali scuri e li mettono anche a Ismene: è il segno del lutto, dei funerali di Stato, a suggellare con ironia macabra la sorte di Antigone. Mi viene in mente il trittico degli Stati d’Animo di Umberto Boccioni conservato al Museo del Novecento di Milano – in particolare “Quelli che restano” – vedendo le tre figure mute allineate che accompagnano la marionetta al passo lentissimo e ondeggiante di una marcia funebre cadenzata (se ne può vedere qualche istante nel video sopra citato) e le impediscono, con dolce fermezza, di voltarsi indietro. Gli attori impersonano qui Creonte, il coro, tutti quelli che più o meno sinceramente condividono il dolore di Ismene (in particolare l’attore che si getta tra le sue braccia singhiozzando, e si fa consolare da lei, potrebbe essere Emone, il fidanzato di Antigone, che in Sofocle cerca di salvarla e poi si uccide).

Queste ultime tre scene citate, che si succedono senza pause né parole, in rapida sequenza, mi paiono magistrali nel condensare in estrema sintesi la vicenda (il compianto, la repressione, il funerale) e più in generale nel rendere il nodo tragico che anima l’Antigone e l’intera produzione tragica greca. Il rapporto tra attore e marionetta esprime al meglio il conflitto irrisolto tra singolo e collettività, tra umano e sovrumano. Lo spettacolo potrebbe benissimo finire qui – e lo dimostra il lungo applauso che segue l’uscita di scena degli attori – eppure viene aggiunto inaspettatamente un epilogo straniante: Ismene, seduta a fronte palco in braccio all’attrice che la manovra, fuma tranquillamente una sigaretta mentre rivendica il suo punto di vista sulla vicenda. Sostiene le ragioni del suo ‘tirarsi indietro’, a suo dire altrettanto fondate e sofferte di quelle della sorella. Rimaniamo spiazzati: che sia un modo di bilanciare la visione unilaterale e stereotipa di quest’eroina pasionaria e kamikaze? Forse: la risposta soffia nel vento, o meglio nell’ultima boccata di fumo che la marionetta condivide con la sua ‘anima’, prima che il buio le avvolga.

Martina Treu