di Andea Cosentino
regia di Valentina Rosati
visto al Teatro Litta di Milano_ 25 Novembre-4 Dicembre 2011
Essere o apparire, questo è il vecchio problema.
Andrea Cosentino, con la sua Fedra, mette il dito nell’antica piaga: cosa dice di noi, il modo in cui gli altri ci vedono? Per Euripide e i suoi contemporanei, la fama di un essere umano coincide con la sua stessa essenza: per questo, Fedra preferisce morire piuttosto che vedere la sua reputazione infangata. Apparenza, onore, finzione, lo iato tra ciò che siamo e ciò che sembriamo: come trattare questi temi – così cruciali per il Novecento – nell’epoca del 2.0? Chi è Fedra nel regno dei reality show e dei social network?
È proprio questa la prospettiva che Cosentino e la regista Valentina Rosati si divertono ad indagare: ad aprire lo spettacolo è una sorta di conferenza stampa nella quale Fedra, il marito Teseo e il figliastro Ippolito si presentano davanti al pubblico e ad immaginarie telecamere. Teseo annuncia l’imminente partenza, Fedra saluta sorridente e muove la mano in stile regina Elisabetta, Ippolito bamboleggia con occhio vacuo.
Proprio la dimensione pubblica o, per meglio dire, mediatica della vicenda è infatti la cifra dello spettacolo: il pathos viene mostrato ed esibito prima che vissuto. L’ostentazione del dramma diviene la prima chiave di comicità, e la tragedia lascia il posto alla farsa: Fedra si mette a posto i capelli per risultare fotogenica nel momento della morte, e, proprio un istante prima di impiccarsi, si augura che gli spettatori possano apprezzare lo spettacolo. Inutile cercare autentica sofferenza tra le pieghe della fiction: tutto è preparato, allestito e apparecchiato ad hoc per lo spettatore. Lo straniamento investe in primo luogo il pubblico, che viene tenuto emotivamente ben distante dalla vicenda; ma sono anche i personaggi a vedersi agire, come da lontano. È una distanza che prende le forme della meta-teatralità: Fedra recita in stile tragico, ma poi commenta a margine la propria performance, assorbendo in qualche modo in sé la funzione critica del Coro.
Ben coerente – nel contesto di una simile alienazione – è il significativo ruolo drammaturgico affidato da Cosentino a bambole e fantocci. Un grosso pupazzo fa le veci di Ippolito proprio nei momenti di maggior drammaticità: diviene oggetto della brama sessuale della matrigna e viene schiacciato nella corsa automobilistica che ne determinerà la morte. A Fedra in carne ed ossa si alterna invece una barbie, grande quanto basta per entrare in un televisore: la sua morte viene raccontata da un cronista, tra una ricetta del territorio di Trezene e un’intervista ai vicini. Il diaframma televisivo è inesistente: dell’apparecchio resta soltanto lo scheletro, quasi a mettere in luce quanto il filtro mediatico sia prima mentale che concreto.
Ancor più lontano dall’idea di personaggio a tutto tondo è Teseo: il suo profilo – non a caso quello di Cosentino – coincide con quello di deus ex machina dell’intera vicenda. Lascia presto lo spazio scenico e condanna così i personaggi a interpretare le parti previste dalla ben nota partitura tragica (“rilassatevi e pensate che qualsiasi cosa facciate non potevate non farla”); riappare poi sotto le spoglie di un’ambigua nutrice; incalza lo spettatore con i virtuosismi comici di cronista sornione. Ma l’occulto ruolo di burattinaio si rivela nella scena finale dello spettacolo: Teseo tiene in mano la piccola Barbie-Fedra che, ormai morta, lo prega di lasciarla andare. In un amaro finale apocrifo, Fedra si schianterà per terra, punita per non aver compreso la propria assenza di libertà: “te l’avevo detto, ero io che ti reggevo, fin dall’inizio”.
Chi ha seguito Cosentino nelle sue tappe artistiche, non può non riconoscere qualche elemento di repertorio: oltre all’atmosfera da avanspettacolo (a cui allude anche il titolo “rivista”), il ricorrere di alcuni sketch già collaudati (lo schermo televisivo, le bambole, la macchina acchiappa-dio) fa pensare quasi a un centone, non privo di una certa frammentarietà. Eppure i singoli elementi, ben declinati nel contesto, paiono qui diversamente significanti e ben legati da un filo tematico che si dimostra più forte di quanto sembrerebbe ad un primo sguardo.
La presenza di un deus ex machina, un fato che non lascia margine di azione, la mancanza di libero arbitrio: queste sono le suggestioni che tornano – quasi un tessuto unificante – nel lavoro di Rosati-Cosentino e che più avvicinano lo spettacolo alla prospettiva della tragedia classica, seppur rivista e fatta a tranci. Ed è proprio qui il nodo drammatico: l’impossibilità di uscire dal meccanismo mediatico, la necessità di seguire le regole di un gioco imposto da altri, la fatica dell’interpretare, del recitare. Così Fedra, mentre prepara la sua morte sotto i riflettori, viene colta da un istante di paura, o forse solo di solitudine; nell’unica battuta dal sapore autentico, quasi intimista, dell’intero spettacolo, chiede a Ippolito di tenerle la mano. Quasi come ad un compagno di scena a cui chiedere conforto prima di darsi in pasto ai riflettori. Il conforto le viene negato e Fedra vacilla. Ma è solo un istante: show must go on.
Maddalena Giovannelli