I frequentatori abituali di teatro e di spettacoli dal vivo negli ultimi quattordici mesi hanno avuto vita difficile, sia pure non paragonabile a quella dei lavoratori del settore, tra lunghe e forzate chiusure e poche intermittenti aperture. Chi studia e insegna teatro si è spesso adoperato in questo periodo per sostenere anche a distanza chi nei teatri ci lavora, ma anche per supplire a un bisogno per molti di noi primario: così, per necessità, il rito collettivo si è spostato sugli schermi, tra spettacoli in streaming e registrazioni video di repliche analizzate e commentate a lezione, rigorosamente a distanza, con gli studenti. Ora che finalmente si sono riaperti i teatri con che spirito ci torniamo? Con emozione, gioia e trepidazione: quasi in punta di piedi, come per timore di spezzare un incanto. Ma anche con una certa inquietudine, un senso quasi di smarrimento.
Non abbiamo solo perso un’abitudine, a livello individuale, ma abbiamo vissuto un trauma a livello collettivo.
Una consuetudine antica si è interrotta. Abbiamo perso il ‘filo’ di un rito che non si è del tutto spezzato (forse),ma si è allentato e ora pian piano andrebbe riallacciato, intrecciato, intessuto di nuovo. Come? Per esempio ricordando che molti palliativi o surrogati consolatori in cui abbiamo cercato scampo in questi lunghi mesi come antidoto al virus – serie tv, libri, film o fumetti – sono parenti alla lontana di quello che tanto ci manca, lo spettacolo dal vivo, e rispondono in modo diverso alla stessa esigenza o necessità: rappresentare, vedere, raccontare e sentirsi raccontare storie. A puntate o a episodi, in sequenza, in serie. O meglio ancora a gruppi di tre, ossia in trilogie: come ci hanno insegnato i Greci. Ora che possiamo tornare a teatro, quindi, quale miglior modo per celebrare la riapertura se non rievocare “gli antichi” con tre storie, nate in Grecia molti secoli fa? Nel quinto secolo, ad Atene, ogni tragediografo partecipava a un concorso proponendo tre tragedie insieme, da rappresentare in una giornata e in sequenza, con l’aggiunta solitamente di un quarto dramma satiresco o comunque di natura ibrida, in modo da formare una tetralogia. La trilogia poteva riguardare storie diverse oppure una sola, raccontata in tre segmenti: in questo caso era detta ‘legata’, e lo è l’unica trilogia antica sopravvissuta integra: l’Orestea di Eschilo.
La trilogia su cui ci concentriamo è però un’altra, e decisamente sui generis: il modello sono tre drammi di un altro autore, Sofocle che non nascono insieme né sono rappresentati in un’unica giornata. Eppure sono tre parti di una sola saga familiare, ambientata in una città, Tebe, che molti moderni considerano “l’anti-Atene”, ossia il luogo dell’impurità e della maledizione che la polis ambienta rigorosamente altrove, come “altro da sé”. La storia è ben nota: il re Laio figlio di Labdaco e la moglie Giocasta ignorando gli avvertimenti dell’oracolo generano Edipo, che viene ‘esposto’, salvato, cresciuto a Corinto, destinato a diventare inconsapevole parricida e marito incestuoso della madre e a generare con lei quattro figli /fratelli (Antigone e Ismene, Eteocle e Polinice). Da questa ribollente materia mitica Sofocle ricava la cosiddetta trilogia “tebana”, senza però rispettare la scansione cronologica dei fatti: nel 442 a.C., con l’Antigone, racconta l’ultima parte della storia, ossia lo scontro fratricida tra i figli di Edipo. Di quella tragedia, premiata da enorme successo, scriverà poi un prequel meno fortunato, perlomeno nell’immediato: perde il concorso tragico col suo Edipo Re, dramma innovativo costruito come indagine a ritroso dove il protagonista scopre a posteriori il suo incesto e parricidio. La data di rappresentazione è incerta, forse posteriore al 430 a.C., se è vero che la peste evocata a inizio tragedia ricorda quella che realmente devastò Atene in precedenza, e oggi risuona di echi profetici. Solamente alla fine della sua vita Sofocle scrive il terzo e ultimo capitolo della saga Edipo a Colono (401 a.C.), dove il protagonista esiliato da Tebe trova finalmente pace, ma si profila già la sorte sciagurata dei suoi figli. I tre drammi sofoclei, in sintesi, vengono scritti e rappresentati nel corso di molti anni, e non si saldano perfettamente tra loro, a livello drammaturgico. Queste caratteristiche non pongono problemi al pubblico antico, nato e cresciuto in una cultura prevalentemente orale, che ha grande familiarità con i miti – tramandati di generazione in generazione – e in più coltiva e allena costantemente la memoria e frequenta i teatri con regolarità. Il meccanismo stesso del teatro ateniese porta a sperimentare versioni diverse di un mito, apprezzare le varianti, ricomporre i segmenti sparsi di una storia, colmare mentalmente i vuoti e le discrepanze pur esistenti tra drammi di epoche e autori diversi.
Ma che dire del pubblico di oggi? Le moderne trilogie possono durare per anni o decenni come nel caso di George Lucas o Peter Jackson, per non parlare delle serie Tv o a fumetti o delle saghe di Harry Potter. Ma vale lo stesso per il teatro classico, e se frequentarlo è un pubblico giovane, inesperto, o che ha perso “l’allenamento”, dopo mesi di clausura? Mi pongo queste domande specialmente pensando agli studenti, dopo mesi di lezione a distanza, e propongo alcune riflessioni a partire da tre casi esemplari. Sono tre diverse riletture di Sofocle – concepite quasi in contemporanea da diverse compagnie – a cui abbiamo assistito, con studenti di varie età e formazione, prima e dopo il lockdown: le prime due Antigone e Verso Tebe rispettivamente il 20 febbraio 2020 al teatro Carcano e il 21 febbraio 2020 nella sala Fassbinder del teatro Elfo Puccini di Milano, la terza riscrittura La notte di Antigone il 4 maggio 2021 nella stessa sala di quest’ultimo teatro. I tre spettacoli sono frutto di una lunga gestazione (risalgono alla stagione 2019 /2020) e si caratterizzano per l’estrema cura drammaturgica nella rielaborazione dei testi. Possiamo paragonarle a una strana, inedita trilogia slegata, per la loro storia e per le condizioni in cui vanno in scena. Ci offrono spunti di riflessione sulle condizioni di rappresentazione antica e moderna, e in particolare su quelle degli ultimi mesi, dettate inevitabilmente dalla situazione contingente.
Confrontando questi tre lavori in progressione possiamo riconoscervi un percorso di allontanamento sempre più marcato dall’originale. L’adattamento da Antigone al Carcano, firmato da Laura Sicignano e Alessandra Vannucci e prodotto dal teatro Stabile di Catania, è senz’altro il più vicino a Sofocle. Una riscrittura asciutta, buia che non lascia scampo, e sin dall’inizio dichiara la sua interpretazione radicale della scelta tragica: non solo Antigone e Creonte, ma tutti i personaggi contribuiscono a determinare l’impasse collettivo che rappresenta metaforicamente sulla scena la nostra condizione umana. Tutti, compresa Euridice moglie di Creonte e madre di Emone, a cui viene dato particolare rilievo, appaiono bloccati in una coazione a ripetere, come pedine sulla scacchiera, in una partita in perenne stallo. Le note di regia suonano oggi tristemente profetiche, vista la pandemia incombente: «Da Sant’Agostino a Leibniz, da Voltaire ad Hannah Arendt – spiega la regista – l’idea del male minore ha percorso il pensiero morale occidentale. Antigone, nel momento in cui si affaccia alla vita adulta, preferisce trasformarsi in martire in nome di una radicale negazione del mondo. I giovani di questa tragedia si immolano. Il vuoto dei padri inghiotte quello dei figli, in un vortice che implode davanti agli occhi del mondo. Tutti i personaggi invocano gli dèi, ma non arriverà alcun deus ex machina a riportare la pace».
Contemporaneamente all’Antigone di Sicignano, un altro Edipo, questa volta firmato Ferdinando Bruni/ Francesco Frongia, va in scena nel febbraio 2020 nella Sala Fassbinder dell’Elfo Puccini, per l’occasione trasformata in arena sul modello antico. Ai quattro lati della sala tribune rialzate per il pubblico delimitano lo spazio come un ring: ai quattro punti cardinali a bordo scena sono disposti leggii e microfoni dove si avvicendano gli attori che interpretano tutti i personaggi e il coro (con Bruni in scena Edoardo Barbone, Mauro Lamantia, Valentino Mannias). Del resto Verso Tebe. Variazioni su Edipo, come rivela il titolo, è un work in progress in forma di concerto dove le voci si intrecciano e si sovrappongono, dove il mito si specchia in molte immagini riflesse (non in una lente, ma in un caleidoscopio). In scena viene evocato il processo creativo di avvicinamento a Sofocle attraverso stratificazioni, varianti e integrazioni (di qui il sottotitolo) attinte e contaminate da autori di epoche successive: Seneca, Dryden e Lee, Hofmannsthal e Cocteau, Mann, Dürrenmatt e Berkoff (il suo Greek, o “Alla Greca”, aveva trionfato all’Elfo molti anni fa). Così le note di regia: «La storia di Edipo attraverso i secoli diviene lo specchio in cui si riflettono le inquietudini di chi l’ha riletta». Non c’è posto, in questa rilettura, per la pace che Edipo trova a Colono, come non c’è pace per un’altra, moderna Antigone: quella de La notte di Antigone di Eco di fondo che re-inaugura dopo la pandemia la stessa sala Fassbinder dell’Elfo Puccini.
Anche qui, come in Verso Tebe, troviamo in scena Edoardo Barbone a interpretare il fratello della protagonista femminile, l’intensa Giulia Viana anche co-autrice del testo, costantemente in bilico tra dolcezza, durezza, rabbia e commozione. I personaggi non hanno nome, anche se si ispirano a Stefano e Ilaria Cucchi. Non siamo a Tebe, ma in uno spazio neutro che diviene ora rifugio, ora prigione, ora ring. Al posto delle mitiche “sette porte” cittadine ci sono pareti mobili che via via si ergono tra il ragazzo e la sua famiglia, chiudendolo dentro. Qui il giovane protagonista combatte contro se stesso, il suo “doppio” o nemico immaginario (Barbone e il regista Giacomo Ferraù che lo affronta in una danza di guerra, come controfigura muta). Il nome di Antigone cade quasi a fine dramma, sul finire della notte che dà il titolo alla riscrittura, quando Creonte (l’ottimo Enzo Curcurù, che non a caso interpreta anche il padre dei due fratelli) cerca di convincere la protagonista a una scelta tragica che ribalta e rafforza il gesto simbolico della sepoltura: in questo caso cercare la verità e la giustizia, non “seppellire” il fratello ma al contrario riesumarlo, mostrarne il corpo straziato, riaprire le ferite sue e della famiglia (il padre e la madre, come l’Ismene sofoclea, la invitano a lasciare perdere, a “seppellire” ossia insabbiare la vicenda, a chiuderla e ricominciare a vivere, dato che nulla potrà riportare in vita il fratello). La sorella non può seppellire il cadavere finché non trova pace con se stessa e col fratello, finché non fa luce sulla sua morte: ce lo dimostra nel gesto icastico più volte ripetuto (il sudario proteso a coprire il corpo e subito tolto, strappato via) ma anche nel monologo che apre e chiude lo spettacolo. Qui, seduta in proscenio, rievoca il gioco delle libere associazioni che faceva col fratello da bambina – il flashback nello spettacolo si intreccia costantemente al presente – in una coazione a ripetere dove le prime parole alludono al legame tra i fratelli, le ultime alla morte. Un’altra, eterna Antigone, che convince e ancora combatte (il giudizio d’appello è emesso pochi giorni dopo la “prima”) e con le lacrime agli occhi a fine spettacolo si unisce all’intera compagnia schierata nel ringraziare gli spettatori, altrettanto commossi, per aver celebrato insieme di nuovo questo rito collettivo che si chiama “teatro”.
Martina Treu
Foto di copertina: ©Chiara Asoli