È domenica, quando il cancello del Lavoratorio si apre per fare spazio al pubblico di Piccolo suicidi, una pietra miliare del teatro d’oggetti, ideata negli anni Ottanta da Giulio Molnár e riproposta adesso dalla figlia Olivia Molnár. Li incontro entrambi davanti a una tazza di caffè, per una conversazione intorno a questa performance e al suo caratteristico linguaggio.
Olivia, sei nata da genitori e attori drammaturghi, e il teatro ha fatto parte della tua biografia sin dall’infanzia. Cosa ha rappresentato per te, nella tua giovinezza? È stato tuo padre Giulio a infonderti questa passione, o l’hai scoperta da sola?
Olivia: È vero, fin da quando sono piccola ho frequentato teatranti e artisti: eppure attualmente non faccio teatro. La mia pratica si è espansa in vari campi performativi, questa è la prima volta in cui sono veramente in scena e riprendo il lavoro di mio padre. Ho frequentato il CLAVeS di Venezia (Centro Seminario Veneziano di Cognizione Linguaggio Azione Sensibilità, sorto all’interno del Dottorato in Filosofia di Ca’ Foscari, ndr) dove c’erano effettivamente alcuni corsi di teatro, ma poi sono partita per Bruxelles e non ho più portato avanti questa passione, dedicandomi invece alla realizzazione di cortometraggi. Non credo che oggi potrei occuparmi di teatro in senso lato: il mio modo di scrivere e di stare in scena si avvicina piuttosto alla mia pratica di animatrice. Non è un teatro d’attore, ma d’autore. Ma credo che i miei genitori, con la loro sensibilità poetica e il loro modo di scrivere, abbiano influenzato il mio modo di fare teatro.
Tuo padre Giulio scrive Piccoli suicidia metà degli anni Ottanta, e ora lo presenti al Lavoratorio. Come è stato lavorare insieme a lui? Avete rimaneggiato il testo?
Olivia: Piccoli suicidi è stato scritto ormai 40 anni fa. È uno spettacolo frutto di un linguaggio personale, privo di parole. È piuttosto un testo onomatopeico, caratterizzato da molti borbottii che produco con il mio corpo, esito quindi della mia personale maniera di farli. Lo spettacolo è stato riallestito da altri artisti, che lo hanno ripreso in paesi come Francia, Germania e Spagna. E ogni versione è diversa, perché ogni interprete se l’è addomesticata a proprio piacimento. Prima di iniziare a dedicarmi al teatro ho seguito uno stage sul teatro degli oggetti con Agnès Limbos, una geniale autrice belga. Successivamente ho cominciato a lavorare con mio padre. Lo spettacolo lo conoscevo a memoria, perché l’ho sentito recitare fin da piccola: ci siamo limitati a riadattare alcuni passaggi, a modernizzare alcune soluzioni.
Giulio, cosa intendi con “teatro d’oggetti”? Che significati possono assumere gli oggetti in scena?
Giulio: Gli oggetti sono pregni di significato, chi più chi meno. È vero che mi sono dedicato al teatro di marionette, ma l’ho fatto più dall’esterno che dall’interno: lavoravo come autore e regista, dietro le quinte. E ho lavorato così anche con il teatro di prosa e di poesia. Piccoli suicidi è nato in una scuola di teatro a Parma negli anni ’80, insieme ai miei colleghi: ognuno di noi aveva come compito quello di portare a lezione alcuni oggetti, così da comporre una natura morta da raccontare e illustrare agli altri, soggettivamente, restituendo le sensazioni suggerite dalla sua visione. Sono proprio le suggestioni sorte dall’osservazione e dalla manipolazione degli oggetti a costituire l’origine di una storia. Gli oggetti costituiscono una possibilità di scrittura: grazie a loro è possibile notare dettagli di ciò che ti circonda, e attribuire nuovi significati alle cose. Non sono in alcun modo un mero derivato delle marionette, come erroneamente si pensa.
A quale teatro appartengono gli autori che più vi interessano? Quali sono i vostri maestri?
Olivia: Vivo a Bruxelles da dieci anni, dove c’è una scena teatrale incredibile frequentata anche da molti giovani. Come punto di riferimento del genere, Agnès mi ha infuso una certa tecnica e una certa passione. A me lei fa molto ridere e la considero un’insegnante validissima. Ha aperto una scuola in Belgio dove insegna il teatro di marionette.
Giulio: Da un po’ di anni a questa parte non vado più a teatro: mi considero in pensione, così lo evito. Mi manca troppo, ed è per questo che ho deciso di tirare una linea, netta, con il passato.
a cura di Francesco Cosenza
foto di copertina: ufficio stampa
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica