A Parigi­­, sul finire della presidenza Mitterand, tre uomini chiusi in un interno piccolo-borghese contemplano una tela bianca, di assoluto e impenetrabile nitore: sono Serge, Marc e Yvan, colti mentre interrogano il quadro e i suoi possibili significati. Presto la disamina artistica li porterà a confondere l’esegesi con l’autopsia, l’ermeneutica con la dissezione di un’opera altrettanto indecifrabile: i legami che li uniscono, li legittimano amici, finanche li strangolano. Era il 1994, e non ancora archiviati il rampantismo e le idiosincrasie degli anni ottanta, l’enigmatica opera di Antrios forniva a Yasmina Reza la miccia in grado di far detonare tensioni sopite e rivalità: con «Arte» – portato in scena in Italia, tra gli altri, da Giampiero Solari e Alba Maria Porto – la drammaturga francese conquistava il premio Molière e assurgeva tra i grandi nomi del teatro internazionale.

È un’eco silente di quel capolavoro a ritrovarsi in Livore, lo spettacolo firmato da VicoQuartoMazzini a partire da una drammaturgia di Francesco d’Amore, che ha debuttato a Prato, nell’ambito dell’edizione 2020 di Contemporanea Festival. Quei tre parigini oggi si chiamano oggi Rosario, Amedeo e Antonio, e abitano in una qualsiasi metropoli italiana: Roma o forse Milano, con quella sua infatuazione per la bistronomie trafugata proprio alla capitale francese e i suoi pasti stravaganti.

Medesimo è il gruppo di anime alla deriva osservato nel frammento di una serata; equivalente il ruolo che l’arte e soprattutto il suo mercato – sia esso quello di opere visive, o quello più impalpabile e meno blasonato del teatro e delle serie tv – rivestono all’interno di un dispositivo spietato, sofisticato come uno strumento di tortura. Analogo, infine, il ricorso – testuale in Reza, estetico nella scena disegnata da Enrico Corona e Alessandro Ratti – a un rettangolo lattiginoso come al ring, metaforico e al contempo concretissimo, nel quale si agirà il carnage: una mattanza compressa, che si annida, efferata, nei silenzi tra una battuta e l’altra.
Il quadrato bianco della tela, esposto, ammirato e denigrato in «Arte», in Livore giace tuttavia a terra: lo status che il suo possesso sembrava assicurare quasi trent’anni prima è stato da tempo raggiunto, e qualsiasi velleità tipica della gauche caviar è solo un ricordo da cui fuggire, da calpestare e umiliare con scarpe lucide come specchi.

In una traslazione significativa, d’Amore dona dignità di titolo all’ostilità che agiva carsica nella drammaturgia di Reza, ed espunge dal dettato qualsiasi riferimento a una galassia anche soltanto superficialmente, scolasticamente “colta”. Nel networking, nelle relazioni del presente, confessare di conoscere Orazio Gentileschi «fa intellettuale, fa antipatia». L’arte, certo, gioca ancora un ruolo nelle esistenze, anzi è per il trio – tracciato con sagacia dal drammaturgo e attore pugliese – mestiere e professione e non più soltanto simbolo di ascesa. Eppure il teatro e la recitazione sono soltanto lavoro, soltanto le chiavi contingenti e bizzarre («tutte quelle stronzate», chiosa Rosario) necessarie ad aprire porte ben più importanti di quelle dell’immortalità riservata ai grandissimi. Poco conta che Antonio – lo stesso d’Amore, nervoso e dinoccolato, perfetto nelle indecisioni, negli inciampi, nei ritmi sincopati con cui la sua voce tradisce una sofferta sindrome dell’impostore – sia un attore mediocre: Rosario, al suo fianco nella vita e nella carriera – Gabriele Paolocà, millimetrico nelle posture, nei gesti con cui proietta all’esterno la fragile sicurezza di chi “ce l’ha fatta” –, potrà indirizzarne le scelte, facilitarne gli accessi ai circoli di produttori e onorevoli, tirare quei fili in cima ai quali il successo ha un valore monetizzabile. Così all’interno di una scatola nera che sembra ingabbiarli in un’esistenza di perenne teatralità, i due si muovono lungo traiettorie obbligate, quasi ortogonali, camminando al di sopra di un quadrato bianco di pericoloso candore, mentre allestiscono con un misto di ansia e compiacimento quella cena che, infine, proietterà Antonio nell’empireo del cinema internazionale.

D’Amore, la cui scrittura sta sempre più sottoponendo a stranianti torsioni i generi e le etichette – si veda il recente Siede la terra, presentato come evento conclusivo dell’edizione 2020 di Terreni Creativi e realizzato insieme a Luciana Maniaci, l’altra metà del duo Maniaci d’Amore – alza ancora la posta in gioco, e meticcia la commedia à la Reza con il dramma psicologico. Lo scenario familiare e riconoscibile, addirittura nazionalpopolare, della cena gourmet animata da una coppia gay subisce così un brusco calo di temperatura grazie all’arrivo dell’ospite inatteso. Michele Altamura – potente, persuasivo, animato da una violenza sorda celata dai sorrisi e dal timbro piano della voce – è l’attore geniale, Amedeo: impegnato con Antonio sul set di una serie televisiva, da questa allontanato grazie a un subdolo intervento di Rosario, è intenzionato ad affrontare la coppia, a smascherarne con sottile pervicacia le ipocrisie e a farne emergere, infine, la finzione. Se sul piccolo schermo Antonio e Amedeo interpretano rispettivamente Mozart e Salieri, nella realtà Antonio è il soccombente, colui che invidia e inestricabilmente ama il cristallino talento di Amedeo, la sua devozione al teatro, la sua pervicacia nell’andare in scena per una manciata di spettatori, tra scantinati e circoli. E tuttavia indagare i confini tra autenticità e fiction risulta quanto mai inane: «a nessuno interessa più la realtà», sentenzia Rosario, e l’unico teatro che davvero conta è quello dove tutti noi, quotidianamente, recitiamo.

Si vorrebbe quasi esplodere in un gioioso «finalmente!» di fronte al dipanarsi della vicenda di Livore, e al suo irridere la liturgia della retorica con cui ognuno di noi è solito omaggiare il teatro: come se questo sia soltanto il luogo degli abbracci e giammai l’arena di Eva contro Eva, l’agone all’interno del quale lobby, potentati e cani sciolti si fronteggiano, ricorrendo al denaro e al sesso – quello esperito tanto quanto quello desiderato e immaginato – per spartirsi un posto a un sole sempre più freddo. Francesco d’Amore e VicoQuartoMazzini si assumono il rischio di raccontare una storia differente, impopolare: dove la coppia omosessuale formata da Antonio e Rosario non è contraddistinta da eroismi e difficoltà, bensì da un miscuglio di meschinità e ambizione; dove la seduzione omoerotica è un mezzuccio che anche l’eterosessuale Amedeo immagina di poter usare a proprio vantaggio, e dove l’amore è soprattutto «l’elenco delle cose che abbiamo ottenuto: scritture, riconoscimenti, soldi».

È forse qui il nucleo della coltissima drammaturgia di d’Amore, che dalla superficie delle suggestioni si inabissa verso un oscuro, piacevolmente crudele, fondale di sottintesi: come ricorda Antonio, «le battute sembrano semplici ma sono piene di intenzioni sotto, di non detti, come si dice, di “sottotesti”». Il tema dell’invidia (ciò che proverbialmente avviluppava Mozart a Salieri) appare così soltanto come la variazione di un’aria nascosta, le cui frequenze sembrano risuonare profonde e basse come la voce con cui Altamura intona il Requiem nei primi istanti dello spettacolo. Lugubre e funereo, coperto da un mantello, Altamura è ipostasi del misterioso avventore che nel 1791 bussò nel cuore della notte alla porta di Mozart, commissionandogli quella messa da requiem che sarebbe stata l’ultima composizione del genio austriaco: e l’episodio, raccontato da Stendhal prima e da Puškin poi, squaderna significati altri e imprevisti alla creazione. Per chi suona, in fondo, questo Requiem? Per Amedeo e per coloro il cui destino non corrisponde alla somma dei talenti e dell’impegno profusi in vita? Per Antonio e per gli inconsapevoli automi di un sistema che fagocita e distrugge i suoi stessi esecutori? O forse per noi, qui in platea, che ancora innocentemente crediamo al calcolo matematico del dare e dell’avere, dei meriti e delle colpe?

La regia, firmata da Altamura e Paolocà, esalta le zone d’ombra e le aporie del testo, le contraddizioni che confonderanno i vincitori con gli sconfitti. Nel disegno luci di Daniele Passeri, nei cromatismi che costellano la resa visuale, VicoQuartoMazzini delinea un paesaggio ambivalente, nel quale l’orrore è percepibile e ciò nonostante rassicurante, irresistibile. Ecco che in Livore il théâtre de boulevard incontra Harold Pinter, ecco che – come nel Ritorno a casa del premio Nobelè il capro espiatorio a beffarsi di chi di lui ha abusato e tuttora abusa. Eppure la vittoria sarà raggiunta soltanto accettando le regole del gioco, esautorando i rivali e introiettando linguaggi e pose del carnefice. L’ospite inatteso, il reietto, l’emarginato, finirà per gettare nello sconforto chi tra il pubblico già lo immaginava a guidare una rivoluzione, chi sognava che fosse in grado di ribaltare il tavolo addosso alle bassezze e alle volgarità, per essere infine premiato per la propria vocazione così simile all’apostolato. E noi, che osserviamo la sua rivincita nel buio della sala, non possiamo fare altro che sentirci vicini al mediocre di turno, e a quella immeritata felicità che, una volta tanto, abbiamo invidiato terribilmente.

Alessandro Iachino


LIVORE

uno spettacolo di VicoQuartoMazzini
con Michele Altamura, Francesco d’Amore, Gabriele Paolocà
drammaturgia Francesco d’Amore
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
scene Enrico Corona, Alessandro Ratti
luci Daniele Passeri
tecnica Stefano Rolla
produzione VicoQuartoMazzini, Gli Scarti, Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Armunia e Teatri Associati di Napoli/ C.Re.A.Re Campania
visto al Ex Cinema Excelsior di Prato in occasione di Contemporanea Festival_settembre 2020
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