“Dobbiamo incoraggiare le nuove generazioni al dubbio”. Suonano quasi profetiche, di fronte ai recenti attacchi di Nizza e Ansbach, le parole pronunciate in aprile a Craiova da Andreas Kriegenburg. Perché, in una società che censura le domande, in cui dominano il fanatismo, il fondamentalismo, la certezza a tutti i costi, il messaggio che il teatro, l‘arte rilanciano è quello di coltivare la differenza, l’errore, persino la devianza, i soli a poter generare un pensiero.
E proprio “l’introduzione del caos nell’ordine”, come avrebbe detto Adorno, sembra essere il tema portante della XIII edizione del Premio Europa Realtà Teatrali (e XV del Premio Europa), ospitata in Romania, a Craiova, lo scorso aprile (23-26) in coda al X International Shakespeare Festival. Lo dimostrano i lavori di Romeo Castellucci (Giulio Cesare. Pezzi staccati) e Thomas Ostermeier (Riccardo III) – autori vincitori nell’edizione del 2000 ed ora accolti nella sezione “Ritorni”– decostruendo i discorsi cui il potere demanda la propria legittimazione, in nome di una più generica “volontà di verità” (Foucault). Il primo sfruttando un attore laringectomizzato per interpretare l’orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, tra i capolavori riconosciuti dell’ars retorica. E poi facendo il verso all’iconografia classica, con quel corpo – esaltazione della dignità augustea – tronco e muto, o rivelando nella gola l’origine fisica, carnale, della parola. Il secondo svelando, brechtianamente, la finzione. Tanto con la ricostruzione del Globe Theatre, quanto con l’uso insistito delle maschere, i ceroni, i corpetti, le gobbe, gli a parte col pubblico e quel microfono che raccoglie le confessioni, le segrete intenzioni degli attori, facendo da pendant alla narrazione maggiore e da trait d’union tra i piani in cui è suddivisa l’azione. Con, in più, il video del cielo, a marcare la distanza tra l’uomo e un reale che, solo, può essere vissuto col filtro mediatico (e la memoria, qui, non può che tornare all’Amleto del 2008).
Non troppo distanti sono le riflessioni di Joël Pommerat e Juan Mayorga. Come dichiarato nel meeting coordinato da Georges Banu, obiettivo del francese è mettere in discussione anche nelle favole (Cinderella, Pinocchio, Cappuccetto Rosso) lo statuto della narrazione, annegando il senso – come un Modiano prestato al teatro – in un pulviscolo ondivago di stilemi, frasi, dalla forte carica immaginifica, tra la luce e la molta ombra, che spetta allo spettatore ricomporre in un idioma intellegibile.
Solida, all’apparenza, è invece la struttura di Reikiavik a proposito della famosa sfida a scacchi tra Bobby Fischer e Boris Spasski, ma è facile individuare, dietro le maschere, il gioco continuo dei rimandi, che tanto ricorda Genet (la partita di allora è “inscenata” da due giocatori d’oggi), un livello altro del discorso, quello che oppone due intenzioni, due visioni del mondo. Eccedendo, tuttavia, nelle ambizioni, tanto da non riuscire ad attivare – anche a causa della povertà della messinscena curata da Mayorga, che regista non è – quel cortocircuito tra reale e linguaggio, reale e rappresentazione, che aveva fatto la fortuna di Hamelin.
Dal linguaggio all’uomo che lo ha generato: se destituita del suo potere fondante è la parola, e delegittimato il discorso che la lega, altrettanto problematica si fa l’identità del soggetto pensante. Così nel già citato Andreas Kriegenburg; i personaggi dei suoi spettacoli non hanno nulla degli eroi (o, persino, degli antieroi) della tradizione drammatica: privati di ogni progettualità, come certi prototipi del teatro dell’assurdo, non sono che marionette, “avatar dell’immaginazione” – non è casuale la fascinazione del tedesco per Kafka, il circo, il cabaret, la slapstick comedy, la pantomima – spesso vittime di un macchinario più grande di loro, una “macchina celibe” che scorre ininterrotta, condizionandone i movimenti, sia essa un occhio (Il processo), una specie di turbina (Thieves), o un cubo poliedrico (A Cage went in search of a bird). Un po’ come accade in Silviu Purcărete, il massimo regista rumeno, di cui purtroppo è stato restituito solo un video, tratto da La Tempesta, o nelle opere dell’ungherese Viktor Bodó, tanto nella fase “istituzionale” della Szputnyik Shipping Company (Il Processo, L’ispettore generale) quanto in quella indipendente della maturità, via dal sistema.
Di fronte alla crisi la salvezza, sembrano dirci gli artisti, sta, allora, nella relazione. A tutti i livelli: tra i corpi, meglio se segnati dall’età, in ogni caso esposti al confronto, il superamento progressivo della distanza, in uno sforzo di ri-alfabetizzazione delle coscienze che muove dal grado zero, il piccolo gesto quotidiano, dimesso e per questo autentico. Come nei capolavori del Premio Europa 2016, il coreografo svedese Mats Ek (Axe). E poi col pubblico: sia questo settoriale, come il pubblico carcerario di Armando Punzo, protagonista dell’incontro dell’Union des Théâtres de l’Europe coordinato da Sergio Lo Gatto, sia quello di una nazione, che nel confronto con un teatro vagante, popolare, di “formato tascabile”, intrinsecamente dialettico, (ri)trova le ragioni del proprio essere comunità. Come avviene, dal 2006, col National Theatre of Scotland, a Craiova presente con Last Dream (on Earth), la cui sintesi tra le storie è individuata proprio dalla gente, con uno sforzo attivo (e nel fondo arbitrario) dell’immaginazione. A riprova di come il teatro possa essere, nella misura in cui cessi di essere “esclusivo come il golf” (Pippo Delbono) e definitivo come le ideologie, viatico alla libera circolazione delle idee. Contro ogni fondamentalismo.
Roberto Rizzente