Un senso calmo di attesa prepara l’incontro con Hervé Koubi organizzato da MilanOltre. L’ospitalità è offerta dall’Institut Français: due operatori dispensano cuffie e apparecchi utili alla traduzione simultanea della conferenza e tuttavia quasi nessuno ne usufruisce: il pubblico dei circa cinquanta convenuti sembra familiarizzare con la lingua e preferisce lasciarsi portare dalla conversazione per bocca dei protagonisti. Nel rispetto solenne della sala Francesca Pedroni, giornalista de Il Manifesto, introduce il coreografo del Les nuits barbares.

Da qui si svolge l’intreccio della conversazione senza che ci sia alcuna sovrapposizione concitata di frase, né l’incalzare pilotato o il rischio, nella conduzione, di una mediazione assuefatta nelle domande. La voce di Hervé Koubi ha dalla sua il potere della leggerezza, e si intervalla, limpida e precisa, ad alcuni brevi filmati sui suoi ultimi lavori (Body Concret; Ce que le jour doit à la nuit; BOYS DON’T CRY) e al racconto dell’assistente alla coreografia Guillaume Gabriel, che racconta le scelte dei costumi che hanno guidato la creazione di Les nuits barbares ou les premiers matins du monde.

Ma alla base del lavoro, racconta Koubi fra il serio e il faceto, è lo shock di aver saputo, ormai venticinquenne, delle sulle sue origini algerine. Nelle parole del coreografo i danzatori sono allora come fili che creano il pizzo della memoria: “guerrieri di sacralità” che risvegliano una storia comune, facendo emergere la memoria dall’oblio. A una domanda sulle modalità scelte per affrontare questo spettacolo, Koubi, che definisce il suo lavoro come «un tipo particolare di balletto del XXI secolo», sottolinea la necessità che a un approccio classico e accademico siano d’ispirazione le nuove danze popolari urbane. Un’apertura al contemporaneo che ci viene confermata anche dagli interventi di due danzatori della compagnia: il “capitano” Houssni Mijem e l’italiano Pasquale Fortunato, provenienti, rispettivamente, dal mondo dell’hip hop e della break dance e che parlano dello spettacolo lasciando trapelare una sincera ammirazione per il loro coreografo.

A chiudere la conferenza è una dichiarazione di Koubi che suona come una speranza: che sia possibile per lui (ma anche per gli spettatori) leggere nel lavoro coi danzatori un tentativo di riconciliazione con il proprio passato, con le proprie origini e con la storia in un rinnovato sentire collettivo.

Arianna Granello


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