È un luogo dal fascino d’un altro secolo che continua, dopo sette anni, a farsi incubatore per la ricerca di Ipercorpo: tra panche di legno, sedili di autobus recuperati, bobine a mo’ di tavoli, chioschetti, fiori nel grande cortile e tendoni neri che dividono la parte interna in sale per spettacoli e installazioni, l’atmosfera informale dell’ex deposito per corriere ATR riesce a rendere visibile e concreta la possibilità di una relazione di qualità tra linguaggi artistici e, oltre, tra singoli individui.
Questo accade a Forlì nei quattro giorni in cui la città accoglie un festival che, dopo dodici anni di programmazione, continua a parlare di un’arte ibrida e fluida. Un corpo Iper inteso non solo come singola fisicità umana, ma anche e soprattutto come corpo sociale, formato da individualità capaci di farsi insieme e di chiedere a quella stessa arte qualcosa in più della rappresentazione del mondo: artisti, operatori e pubblico sin dal primo spettacolo – Verso la specie di Claudia Castellucci e della Socìetas Raffaello Sanzio – si incontrano muovendosi come un corpo collettivo. Leib (il corpo vissuto) e Körper (il corpo anatomico) in un’unica incarnazione, un essere che si fa vedere e allo stesso tempo vede, che parla di sé e al contempo chiede un racconto, un organismo disponibile e responsabile che mette in atto un gesto condiviso e non solo performativo.

E se è vero che in ogni comunità c’è bisogno di un pater, nel corso degli anni il festival si è dovuto mettere alla sua ricerca, seguendo una traiettoria che dal 2015 con il sottotitolo “presidio” è passata per una domanda, “cosa rimane?”, e proseguita con un 2017 dedicato al “patrimonio”, fino agli interrogativi di oggi.
Le azioni che compiamo, quali tracce lasciano? Come incidono sul nostro vissuto le persone che incontriamo o le esperienze che viviamo? E come le arti performative ci influenzano, quale sapere e quale eredità possono trasmettere?
Non un padre ontologico quindi, ma un padre che racchiude l’idea di origine, archetipo e memoria, di un sapere che si dona e lascia un segno, di ciò che si deve uccidere o ritrovare per scoprire se stessi.
Il tema paterno si sviluppa così attraverso fotografia, arte visiva, danza, teatro, installazioni sonore, stimolando una visione critica di se stessi e della società in cui si vive.

Uno spazio tempo sospeso quello di Ipercorpo, fenomeno più che festival, attrattore, “agglutinatore di espressioni artistiche” come afferma il direttore Claudio Angelini. Si innesca in questo modo un percorso organico, nonostante la tripartizione organizzativa: per teatro e danza Claudio Angelini, Valentina Bravetti e Mara Serina; per l’arte Davide Ferri; per la musica Davide Fabbri e Elisa Gandini.
Con Davide Ferri la riflessione porta l’arte a uscire da forme concettuali e astratte per radicarsi in una stanza fisica, concreta, umana che accoglie esperienze e narrazioni di artisti incontrati dal curatore stesso.
Il teatro e la danza raccontano invece di un incontro: qui il padre è atavico, è trasmissione e apprendimento del sapere, si trasforma in condivisione di conoscenze, in laboratori, in workshop e masterclass che uniscono linguaggi, professionalità, persone. 
Una riflessione su tradizione e patrimonio si trova in Trop di Andrea Costanzo Martini in cui “padre” è quel modo di fare teatro che si basa su regole acquisite e le cui aspettative possono essere o codificate o trasgredite, mentre il Macbettu di Alessandro Serra va ancora più a fondo rappresentando un substrato ancestrale simbolico legato alla terra, alla lingua, alle tradizioni musicali messo in gioco nel Macbeth.

Una proposta ibrida, dunque, che non accetta i confini di uno spazio ristretto, ma che sceglie volontariamente di porsi al limite. Il quartiere dell’EXATR è infatti un luogo di confine, circondato da case popolari realizzate tra gli anni venti e gli anni trenta dedicate a famiglie disagiate. Immersi nel verde, con cortili in comune e ballatoi a ringhiera, questi luoghi possono diventare ghetto o comunità: portarvi artisti come Andrea Cosimo Martini, Luna Cenere e Ofir Yudilevitch lascia un segno, rendendo presente una dimensione altra, sospesa, in grado di rompere con il quotidiano e di realizzare uno scambio di esperienze e un apprendimento vicendevole.

Un’arte capace di lasciare una traccia, che sia “un’espressione consapevole di fronte alla quale lo spettatore possa sentire vicino ciò che ha visto, ascoltato o a cui ha partecipato” come ha sottolineato Mara Serina. Un’arte che sappia farsi avvertire dagli spettatori come riflesso e specchio delle problematiche particolari e universali di ognuno, senza trincerarsi, escludere.

Nei giorni di Ipercorpo ci si rende conto che l’arte di cui parlano i curatori è lì, circola tra i muri scrostati dell’EXATR, chiedendo al pubblico disponibilità e responsabilità, in una geometria che richiede rischio e coraggio. Far precedere il contenuto rispetto al contenitore nelle difficoltà economiche, organizzative, fisiche che questo comporta, non è affatto scontato. Ma, come si diceva, Ipercorpo, più che un festival, è una triangolazione tra organizzatori, artisti e pubblico, uno spazio che incide mente e cuore, come per lo spettacolo Kokoro di Luna Cenere, che fa del corpo un paesaggio, un territorio di scambio e condivisione, se non di rottura.

Camilla Fava