A imporsi alla vista del pubblico, al suo ingresso nella piccola, preziosa sala del Teatro Caio Melisso, è uno spazio scenico duplice, tagliato longitudinalmente da uno spesso soffitto: sotto di esso, il palco è costellato da decine di comunissime sedie in plastica bianca, rovesciate come se da troppo tempo fossero state abbandonate; al di sopra, benché celati dalla torre scenica, riusciamo a scorgere alcuni fondali dipinti con motivi barocchi, eredità di chissà quali altri spettacoli, di quali altri momenti della storia del sontuoso teatro spoletino. Nulla, se non quelle banali sedie monoblocco, lascia immaginare che ci si possa affacciare verso un esterno; persino le pareti sono oscurate da spessi teli di plastica nera, resi cangianti dalle fredde luci che li illuminano chirurgicamente. Eppure questa dovrebbe essere la stanza che «ancora oggi si chiama “dei bambini”», eppure dovremmo percepire l’alba sulla quale Cechov apre il testo, riuscire a scorgere l’amato giardino di Ljubov’ Andreevna, intuirne il candido splendore, il chiarore, il profumo. Le scene disegnate da Nicolas Bovey per Il giardino dei ciliegi diretto da Leonardo Lidi — quasi una citazione, nel ricorso alla matericità della plastica nera, del sipario e delle quinte ideati da Alberto Burri nel 1976 per il Tristano e Isotta prodotto dal Regio di Torino — smentiscono invece ogni facile aspettativa, e donano all’ambiente un’aura di rassicurante squallore, di desolazione familiare: simile a una casa del popolo cristallizzata nell’epoca del suo declino, la tenuta aristocratica si rivela già prossima alla dismissione, sigillata in una tela degna di un sacco per la spazzatura. Solo il soffitto mobile è in grado di mutare la natura del luogo, scandendo nella variazione delle proprie posizioni il susseguirsi degli atti, e con essi dei giorni trascorsi nella proprietà della Ranevskaja: alzandosi obliquamente si fa cielo metallico in procinto di cadere; sollevandosi sul solo lato posteriore diviene scoscesa riva di un fiume; calando al suolo, è infine terreno calpestatile da chi, come Lopachin, ha trascorso la propria vita con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto, tra risentimento e ambizione.
Anche in questa sua melodia di ascese e declini, nella ritmica conversazione che instaura con lo spazio del Caio Melisso — e di cui proprio il soffitto mobile determina gli accenti, unendo diagonalmente ambienti tra loro fisicamente (e socialmente) distanti — il dispositivo scenotecnico de Il giardino dei ciliegi affianca la drammaturgia dello spettacolo, facendosi cassa di risonanza dei suoi nuclei di senso, e invitandoci a osservare il teatro ora con l’identica nostalgia di Ljubov’ Andreevna, ora con la coraggiosa risolutezza di Anja e Trofimov, o perfino con il desiderio vorace di Lopachin. Non è infatti oltre le quinte, o dietro il fondale, che Lidi fa rivolgere gli sguardi di quell’umanità dolente alle prese con il destino di un giardino di amarene: bensì verso la platea, verso palchi e stucchi, verso i corridoi e le poltrone di un’architettura di pietre e memorie, pulsante di vita come un teatro. Eppure, proprio quando la regia sembrerebbe limitarsi a tradurre Il giardino dei ciliegi in un compianto sul fato avverso all’arte scenica — osservata non tanto nella sua pericolosa, e prodigiosa, inattualità, bensì nella sua precarietà quotidiana, nella volgare umiliazione che questo tempo, e questa politica, sembra riservargli — è Lidi stesso a volgere altrove lo sguardo, a sorridere degli alti lai, a sbeffeggiare qualsiasi malinconia grazie a timbri ironici e comici. In questa frizione chiaroscurale, Lidi agisce e lascia agire attrici e attori in stato di grazia, meticciando la commozione di un addio con la più sfacciata esuberanza.
A evidenziare conflitti e contrasti sono innanzitutto i costumi di Aurora Damanti, in grado di sottolineare gli antagonismi di classe e di aspirazione che attraversano l’opera: se Firs (uno struggente Tino Rossi) è un anziano in sedia a rotelle, abito scuro e papillon, l’umanità familiare che si agglutina intorno al corpo e alla gestualità esasperate — ed esasperanti — della Ranevskaja è invece un caravanserraglio di colori e tessuti, di tute d’acetato e leggings accostati a paillettes e pigiami in pile, di cravatte sgargianti su scarpe troppo grandi o troppo vecchie, di pantaloni di pelle indossati sotto giacconi oversize. Li immaginiamo pescare, con uno spiccato gusto per l’eccesso, tra le offerte di una bottega di abbigliamento di seconda mano, questi personaggi che entrano in scena dal fondo platea, annunciati da un Lopachin — l’ambiguo, straordinario Mario Pirrello — sicuro di sé nell’anonima, impiegatizia divisa grigia di chi ha saputo affrancarsi dalle proprie origini. Eccoli, questi protagonisti di una bohème contemporanea, percorrere i corridoi del Caio Melisso sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, eccoli salire uno alla volta i pochi gradini che li conducono in proscenio, e voltarsi verso la platea, a guardare quegli alberi di ciliegio che lì, tra le poltrone del teatro, tentano di resistere alla scure del tempo. Ljubov’ Andreevna è Francesca Mazza: un dolore incandescente ne incrina a tratti la voce, quando il ricordo del figlioletto annegato emerge dalla bruma della memoria; una svagata incoscienza colora il ritmo delle sue parole, quando dona troppi denari ai vagabondi o rammenta i propri anni parigini. Intensa fino al parossismo, grida il proprio amore per quel giardino che è ora e sempre il teatro, e che ora e sempre è lei stessa, in un’identificazione tra lo spazio e la biografia, tra vita e arte, che suona come monito e minaccia: «io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi non ha senso la mia vita, e se è proprio indispensabile venderlo, allora vendano anche me assieme a lui», urla mentre si appoggia alle pareti della sala, mentre ci guarda in faccia così inerti e silenziosi di fronte allo scempio che si sta per abbattere sulla tenuta. Ma la sua eccezionale, generosa performance trova un adeguato contraltare nell’espressione, nelle movenze, nella prossemica di cui Orietta Notari ammanta Lenja Andreevna: una Gaev che Lidi tramuta in presenza femminile, ma che come l’originale maschile si rivela altrettanto istrionica e bonaria, in grado di cimentarsi in smodate querimonie rivolte verso quel luogo — eccola spostare in proscenio un riflettore mobile, e voltarlo verso la platea — la cui esistenza «già da più di cent’anni è stata orientata a limpidi ideali di bontà e giustizia». Ci si vorrebbe soffermare a lungo, a raccontare il lavoro d’attore di Mazza e Notari (quest’ultima reduce, diretta ancora una volta da Lidi, da un’indimenticabile Medea) e, insieme al loro, quello di un gruppo di interpreti che torna, una volta ancora, a offrire corpo e idee ai personaggi cechoviani: non soltanto per rendere giustizia al talento di ciascuno, e alle intuizioni profuse da ognuno, quanto per celebrare la costruzione di un ensemble coeso e vibratile, l’architettura di una squadra che sembra agire come una compagnia stabile, e che ripropone sulla scena nazionale la forza di un legame — quello tra interprete e regista — troppo spesso dimenticato a favore della costruzione di cast, di incontri professionali occasionali e fugaci.
Esito conclusivo del percorso triennale — sostenuto, oltre che da Spoleto Festival dei Due Mondi, dal Teatro Stabile dell’Umbria e dal Teatro Stabile di Torino — che il regista piacentino, classe 1988, ha dedicato al genio di Taganrog, Il giardino dei ciliegi dimostra ancora una volta come Lidi sappia guidare il proprio gruppo nel tempo lungo di una progettualità distesa, che non si esaurisce mai nella singola produzione ma piuttosto si nutre e si arricchisce di tappe, intersezioni, svolte, e di ciascuna lascia fiorire gli esiti e le concordanze. Questa trilogia — che non esito a definire uno dei più interessanti esperimenti registici e creativi degli ultimi anni — è anzitutto una verticale nell’opera cechoviana, filtrata da uno sguardo autoriale, colto e avantpop: Lidi lascia deflagrare al di sopra del dettato le proprie ossessioni (il cantautorato italiano, l’immaginario nazionalpopolare), tessendo connessioni estetiche e poetiche tra singoli capitoli e personaggi, mostrandone la persistenza delle caratteristiche con approccio comparatista. Così, il sempre puntuale, rigoroso Christian La Rosa è un Trofimov ingenuo e idealista quanto il Kostja de Il gabbiano, e come lui si mostrerà al pubblico con la testa fasciata; il debordante, elettrico Epichodov di Massimiliano Speziani soffre delle stesse inadeguatezze di Vanja, da cui ha ereditato l’affettazione stralunata e la passione per i mazzi di fiori; Anja in questo Giardino e Sonja nello Zio Vanja si animano della stessa forza di Giuliana Vigogna, e di un’identica, imperturbabile ostinazione alla vita. Non si tratta di meri espedienti registici degni di un divertissement, quanto lacci volti a stringere temi e istanze, a garantire — allo spettatore e alla spettatrice, così come all’interprete — un inossidabile patrimonio di significati e memorie. E poi Ilaria Falini, Angela Malfitano, Alfonso De Vreese, e poi ancora Maurizio Cardillo che dà vita a una Šarlotta Ivanovna en travesti, e Giordano Agrusta che interpreta sia Piščik sia un povero viandante: tutti compartecipi di un’immersione nelle vastità cechoviane e in un’emersione alla luce di un presente dolceamaro.
Si sorride di fronte alla bislacca festa che anima la casa di Ljubov’ Andreevna, alla foga con cui ciascuno caracolla verso le sedie vuote prima che si interrompa la musica, alle esibizioni da cabaret di Šarlotta; si ride perfino della sfacciata virilità da strada di Jaša, dell’inadeguatezza di Duniaša, delle millimetriche trovate farsesche: ma è pur sempre la celebrazione di una fine quella che, tra superficiale incoscienza e innocuo edonismo, ha luogo accanto al giardino. Si dovrà traslocare, smontare la scena, liberare gli appartamenti e il palco; ci si metterà in cammino, ci si sposterà di città in città come durante una tournée. Ma Lidi, con intelligenza, non denuncia soltanto l’emergenza culturale in atto: mostra la separazione generazionale tra chi — come Ljubov’ Andreevna, come sua sorella Lenja — ha dissipato la propria ricchezza e chi — come Anja e Trofimov — può canzonare le loro lamentazioni, e impegnarsi con caparbietà a seminare, altrove, un altro giardino. I giovani rifuggono dal piagnisteo, e con contagiosa comicità ne sfottono la retorica, ne svelano la vuota enfasi: tanto che di quell’entusiasmo così utopista si vorrebbe fare tesoro, e unirsi a loro, nella loro compagnia di giro, come attrici e attori di un qualche vaudeville destinato a piazze più fortunate di quelle che lo hanno ospitato finora. Ma un sipario grande quanto un fazzoletto non potrà nascondere Firs, e ciò che stiamo dimenticando mentre spegniamo le luci della tenuta, e con esse di tutto il teatro.
Alessandro Iachino
in copertina: ©Festival dei Due Mondi | Andrea Veroni
IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Cechov
regia Leonardo Lidi
personaggi e interpreti
Ljubov’ Andreevna Francesca Mazza
Anja, sua figlia Giuliana Vigogna
Varja, sua figlia adottiva Ilaria Falini
Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’ Orietta Notari
Ermolaj Alekseevic Lopachin Mario Pirrello
Peter Sergeevic Trofimov Christian La Rosa
Boris Borisovic Simeonov-Piscik Giordano Agrusta
Charlotta Ivanovna Maurizio Cardillo
Semen Panteleevic Epichodov Massimiliano Speziani
Dunja Angela Malfitano
Firs Tino Rossi
Jasa Alfonso De Vreese
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi