Buio. Un’oscurità impenetrabile come lo spazio siderale. Una voce fuori campo, il narratore. Così onnisciente da conoscere non solo la storia che ci andrà a raccontare, ma anche tutti destini dell’universo.
Mariano Tenconi Blanco apre La Vida Extraordinaria con un frammento ampio quanto il cosmo. E lo va restringendo, dal Big Bang, la creazione dei pianeti, l’inizio della vita sulla terra, l’arrivo dell’uomo. Seguendo una lenta, assurda discendenza arriva a noi, presenti e vivi, inconcepibilmente arrivati sin qui. In questo istante. «Este segundo es un milagro», ci dice. Questo secondo è un miracolo.
Eppure. La vita straordinaria, nonostante l’epica cosmica che si tiene alle spalle, sembra assomigliare più a un melodramma dai toni sbiaditi e démodé, chimerici e vaporosi come acconciature anni quaranta, e, come tali, altrettanto immaginari: residenti solo in vecchie pellicole in bianco e nero. Un andirivieni di intrecci, tradimenti e disinganni che ci è caro per quanto è trito, che ci risulta familiare proprio in virtù del suo alto grado di stilizzazione, e vicino, proprio perché non radicato in alcun luogo.
Eppure. Continuando a restringere, alla radice di questi archetipi di seconda categoria – la sartina (Blanca), la professoressa di scuola (Aurora) – ritroviamo con grande sorpresa un paese reale. Situato in Argentina. Nella punta estrema dell’Argentina. Un paese pieno di neve più vicino all’Antartide che all’Argentina: Ushuaia. La fine del mondo. È così che chiamano quel luogo incredibilmente lontano, nelle profondità australi della Terra del Fuoco, dirimpettaio delle isole Falkland. Tanto che tra le abitazioni e i negozi possiamo trovare, addirittura, un “Museo della fine del mondo”. In questo posto disperso Aurora, la figlia del libraio, e Blanca, la figlia della sarta, diventano amiche, nonostante la neve («acqua gelida che riempie tutto di fango», dice Aurora), la temperatura che non supera mai i dieci gradi, e la poca luce. Nonostante “i tipi”, che, da quelle parti – così scrive Blanca in una sua poesia – «sanno di grasso o di umido».
La Vida Extraordinaria, testo ambizioso nella sua inusuale estensione, ha ricevuto nel 2017 il primo premio al Concurso Nacional de Obras de Teatro dell’INT in Argentina. La messa in scena, pensata nel 2018 per il Teatro Nazionale Cervantes di Buenos Aires e diretta dall’autore stesso, ha arricchito ulteriormente il testo, che si è trasformato, modificato nel lavoro di prova con le attrici Lorena Vega e Valeria Lois, arrivando sul palco in una versione significativamente diversa.
La storia di per sé sarebbe semplice. Aurora Cruz e Blanca Fierro sono amiche da quando avevano cinque anni, accomunate dal medesimo amore per la lettura e la scrittura, e continuano a raccontarsi la vita per più di un quarto di secolo. Gli amanti, i figli, le inevitabili morti di cui si sono fatte carico. Aurora va a vivere a Buenos Aires, si sposa con un uomo che non sembra amare granché, ma che le prende un cane, Ulises, che le cambia la vita; perde l’amatissimo padre, rimane incinta, si innamora di un altro – che, per inciso, si chiama proprio Ulises. Blanca, dal canto suo, resta ancorata al paesino, a Ushuaia, vive e lavora come sarta con la madre, riesce a chiudere una noiosa, vecchia relazione che si prolungava dai tempi dell’adolescenza, s’innamora di un norvegese.
Ma la narrazione della storia non è affatto altrettanto semplice: la notevole adesione alle vicende delle due sole protagoniste, quasi priva di digressioni, lungo un impianto drammaturgico imponente, viene controbilanciata infatti dalla grande eterogeneità dei materiali testuali impiegati, che movimenta, spalanca il discorso in una moltiplicazione di registri e incongruenze, disgiunzioni, sfasamenti narrativi.
I dialoghi veri e propri sono pochi: Aurora, infatti, quando la prima scena si apre, vive già da tempo a Buenos Aires col marito. E proprio dalla distanza nasce un fiume di narrazione, che per più di ottanta pagine raccoglie le lettere, le poesie (geniali), i monologhi, le pagine di diario, i concitati flussi di coscienza delle due amiche. Un materiale che si discosta, di volta in volta, di vario grado dalla inconoscibile realtà dei fatti. Ed è qui che nasce il melodramma. Nel racconto che facciamo di noi stessi. Esagerato, a tinte forti, disperato. Con il cuore in mano a causa della nostra noiosa vita straordinaria.
Da La Vida Extraordinaria:
Aurora:
Cucaracha
Una cucaracha
apareció en mi living comedor.
Yo la miré.
Ella me miró.
Estaba en el centro del living.
Las cucarachas existen
desde la época de los dinosaurios.
Yo de pronto sentí el peso
de toda la historia de la biología
en la pequeña chinela
que sostenía en mi mano.
Le pegué fuerte.
Casi con saña.
Como si se tratara de un bicho mayor.
Le pegué dos.
Luego contemplé su cuerpo muerto.
Una explosión de goma.
Un manchón.
Una nada.
O dos.[…]
Blanca:
Ansiedad
Me meto los conejos en la vagina. Los corderos. Las cabras.
Me meto mi cama, mi casa. Me meto toda la ropa de las clientas.
Me meto la Singer. Sí. La Singer en la vagina. Andando. Me meto la
Singer andando. Me la meto a mamá. Sí. En la vagina. Me meto a
todos los tipos que me gustan. Me meto todo Ushuaia. La iglesia,
la municipalidad, la plaza. Me la meto toda. A Ushuaia. Toda.
Me meto todo el viento, toda la nieve, todo. Todo en mi vagina.
Me meto a toda la Argentina. No puedo parar de meterme cosas.[…]
Aurora:
Ulises
Yo tengo un perro.
Se llama Ulises.
No fue idea mía.
Lo trajo mi marido.
Y ahora este perro se me hace indispensable.
Él mira como de perfil.
O huele el aire.
Su existencia en bruto.
Su mundo abundante.
Este perro es mi fuente de energía.
Él es la electricidad,
y yo la lámpara que ilumina la casa.
Él me ayuda en la catástrofe cotidiana.
Ulises es mi amor de este año.
Él es lo verdadero puro.
Lo todo y nada.
La no metáfora.
Yo a veces soy un poco melodramática.
Él simplemente vive.
Entonces ahora estoy de pie.
Y digo Ulises.
Y él aparece corriendo.
Tenemos tiempo.
Tenemos tiempo suficiente.
Quella tra vita che a occhi chiusi si inventa e vita in veglia, ostinata sulla sua stessa miseria è un’incongruenza che ci riporta alla letteratura, al grande scrittore argentino Manuel Puig, capace di raccontare con Una frase, un rigo appena (in Italia edito nel 2000 da Sellerio) un mondo di diari segreti e di lettere, feuilleton e radiodrammi e restituire la complessità della provincia argentina. Una provincia che sogna la lontana Buenos Aires, la capitale immaginaria appresa dagli schermi dei televisori, da fotogrammi che si affastellano l’uno sull’altro, con l’Avenida Corrientes, la via dei teatri, e i cinema, e i ristoranti.
La Vida Extraordinaria mostra una vicinanza singolare alla tradizione letteraria argentina. Basta citare – sarebbe impossibile approfondirli tutti in questa sede – gli omaggi, dichiarati dallo stessoTenconi Blanco a José Hernández (nei cognomi delle protagoniste), a Jorge Luis Borges, Roberto Arlt, Alfonsina Storni, Alejandra Pizarnik, Juan José Saer, Ricardo Piglia, oltre che ovviamente a Manuel Puig.
Un concentrato di letteratura che potrebbe far pensare a una drammaturgia lontana dal palco, distante dalla concretezza della scena.
Invece La vida Extraordinaria al momento di invocare la più grande, aulica letteratura, la nega, e lo fa nell’atto stesso di invocarla, attraverso una pratica profondamente teatrale. Ad esempio, la poesia di Aurora (La cucaracha) declama solennemente lo scarafaggio, la sua dignità di essere millenario schiacciato da un ciabatta, e tuttavia nell’atto così sincero e sentito della declamazione, lo parodizza.
Per Ricardo Bartís – uno dei maestri di Tenconi Blanco, insieme ad Alejandro Tantanian – nel teatro argentino è inevitabile questa costante “moltiplicazione” dei discorsi, ossia la capacità di negare e dire allo stesso tempo, la facoltà di alludere costantemente a qualcosa d’altro. È così che il tentato suicidio di Aurora, coi suoi toni accentuati, diventa quasi una caricatura. Qui non si tratta di scavare in una psicologia, di cercare di essere il suicida (pesante lascito di Stanislavskij, per Bartís). O meglio, si tratta di farlo, ma arrivandoci dal lato opposto: nello stare al di fuori da sé, nella completa estroflessione, nell’esagerazione. Uno stare (obliquo, instabile, ironico) nella posizione del suicida.
La differenza, secondo Bartís, tra l’essere e lo stare è fondamentale per il teatro argentino: un argentino, afferma il teatrista, non dice mai una cosa senza, in verità, sottintenderne un’altra. E il teatro non può non tenerne conto. E così, quando tutti, per Bartís, erano sin troppo influenzati dalla cultura europea, e si impegnavano, cercavano di essere il personaggio, non comprendevano come in verità fosse nello stare la chiave di lettura della realtà argentina, tecnica scenica assai più connaturata al suo modo di agire, intendere, percepire il mondo. Come fare l’occhiolino all’amico mentre si impersona il monologo di Amleto. Il teatro, dice Bartís, non è “essere o non essere”, ma “essere e non essere”.
Eppure. Nel flusso proliferante della narrazione di La Vida Extraordinaria, tra l’inanellarsi degli episodi, ci sono anche quegli inevitabili appuntamenti in cui questa nostra doppia esistenza, reale e raccontata, solenne e demenziale, all’improvviso, angosciosamente, sembra farsi una. Quei momenti che ci fanno uscire dal melodramma, abbandonando nostro malgrado le lacrime di cristallo, per portarci (senza il nostro assenso, non interpellati) in un tempo di tragedia.
Accade ad esempio quando la madre di Blanca si ammala, momento in cui la vita straordinaria ci colpisce con grande durezza, e la ragazza scrive in una lettera ad Aurora: «dove finisce la poesia davanti a un’analisi medica[…] che ti dice che per te è finita?». E in questo momento di emergenza apparentemente infinita, ci scopriamo tutti (lettori, spettatori, poesia compresa) muti davanti allo stesso inappellabile testo. Mentre si avvicina la morte della madre, Blanca ci coinvolge anche solo attraverso il linguaggio, con il ritmo e un uso insistito di diminutivi («magretta», «pianino», «le lavo i capellini», «un pochino») in uno di quei momenti in cui la vita si fa univoca, ed è solo da subire e attraversare.
La scena torna a farsi buia. La voce del narratore ci parla. E dall’alto dello spazio siderale, dei destini dell’universo, si allontana dalla dimensione personale, di due amiche che fronteggiano insieme l’appuntamento terribile con la morte. Con indifferenza, dalla sua prospettiva di pianeti, supernova, cataclismi e silenziose estinzioni, la voce pervade ogni cosa, tingendola di morte («Si nasce perché sì. Si muore perché sì. E in mezzo, tutto», dice Aurora).
A luci spente, terminate tutte le storie, terminato lo spettacolo, quello che più emerge, e che forse ci resta di più, e possiamo tenere in noi e conservare, sono gli incredibili flashback di gioco tra le due ragazze ancora bambine, in cui fanno a gara di parolacce, imparano a ballare, parlano di piselli prendendoli in giro. Perché alla fine, tutto quello che si attraversa prima della nostra dipartita, i nodi della vita, i salti nel fuoco, le trasgressioni, le iniziazioni sessuali, cosa lo si fa a fare, se non per correre a raccontarlo alla propria amica.
Teresa Vila
(foto di copertina: Sebastián Miquel)
(foto spettacolo: Mauricio Cáceres)
L’Instituto Nacional del Teatro mette a disposizione il testo integrale nel suo catalogo, è sufficiente inserire nella barra di ricerca: Teatro/18.
Dal 20 maggio sul canale Youtube del Teatro Cervantes sarà possibile vedere il video integrale dello spettacolo.