Corpi si stendono e si accartocciano per rendersi elastici, volti si contorcono mettendo in moto tutti i muscoli facciali, voci si schiariscono per dare nitidi contorni alle parole: con questo rituale prende avvio la terza e ultima giornata del seminario su La dodicesima notte di William Shakespeare, tenuto da Giovanni Ortoleva al Lavoratorio. Al centro dell’indagine del regista e drammaturgo c’è un tema cardine dell’opera: un amore talmente straripante e sfaccettato da dover essere messo in discussione. Quella delineata da Shakespeare in questa tragicommedia è infatti una passione malata e distorta, che ben poco ha a che fare con la cura dell’altro. Anzi, le diverse forme di lovesickness da cui sono affetti i personaggi raccontano ciò che ciascuno di loro cela, persino a sé stesso, dietro un apparente sentimento d’amore. È infatti la natura di «argomento eterno, che diventa però un modo per celare qualcos’altro» ad attrarre fortemente Ortoleva, con cui ho avuto il piacere di parlare al termine della giornata e del seminario.

Alla base della scelta di lavorare su quest’opera c’è innanzitutto il desiderio del regista di attraversare nuovamente – dopo averlo portato in scena al LAC di Lugano nel febbraio 2023 –  un testo divenuto per lui importante. La familiarità con il dramma shakespeariano e il lavoro già precedentemente svolto gli consentono di essere una guida sicura per i nove giovani attori iscritti al seminario. Tuttavia, la sua curiosità ancora vivida nell’avvicinarsi a questo testo è lampante e genera un’atmosfera di entusiasmo e genuina tensione di fronte alla ricchezza e alla complessità dell’opera.

Al centro della tavola rotonda del Lavoratorio – presieduta dal regista ma dove ognuno ha uguale diritto di parola – c’è il testo. Certo c’è anche un fondamentale lavoro sui corpi: il movimento deve riprodurre il ritmo delle parole, accompagnare il discorso, spalleggiarlo nella realizzazione degli intenti che lo animano e aiutarlo ad armonizzarsi senza forzature con quello dell’interlocutore. Il punto di partenza e di arrivo, però, è sempre il testo, che deve essere ben chiaro nella mente dell’attore. Dopo un’analisi complessiva del dramma e dopo il training fisico, coppie di attori, copione alla mano, recitano prima seduti e poi sullo spazio scenico alcuni dialoghi già analizzati nei giorni precedenti. Ortoleva osserva attentamente i volti, i gesti, ascolta i toni e analizza le emozioni. A ogni interruzione propone un affondo nel testo, per scandagliarlo di nuovo e ricomprenderlo. Poi si ricomincia, ancora e ancora, perché motivazioni e sentimenti dei personaggi si manifestino al meglio. «Quello che desideravo fare era proprio questo», dice Ortoleva: «con gli attori partecipanti abbiamo lavorato molto a tavolino e alcuni versi che pensavo di aver già capito, ora sento di averli compresi di nuovo e in modo diverso». I personaggi stessi possono così presentarsi sotto una luce nuova: «per esempio, lavorando sulla figura di Feste, è interessante pensare che non sia solo depresso, ma anche pazzo: che il fool possa essere in un certo senso malato è una prospettiva a cui non avevo pensato».

Imperativo categorico per il regista è quello di lavorare su testi che mettano in luce aspetti della nostra realtà, lasciando però che sia l’opera a parlare, senza alcuna ostentazione o spiegazione: «Ogni volta che porto in scena un testo è perché lo ritengo contemporaneo, ma cerco di non esplicitare mai alcun collegamento. Quando da spettatore mi capita di assistere a queste sottolineature, mi infastidisco». La decisione stessa di mettere al centro l’amore nel lavoro su La dodicesima notte è una semplificazione frutto della volontà di non creare un forzato dialogo con la nostra contemporaneità. L’amore è certamente un tema centrale dell’opera, ma – puntualizza Ortoleva – «non bisogna dimenticare che si tratta di un testo sulla rivoluzione puritana in Inghilterra. Questo più profondo aspetto del testo tuttavia non può risultare contemporaneo, se non attraverso una violenta distorsione».

Nonostante il desiderio di raccontare il presente e i suoi aspetti più nascosti o problematici – un’urgenza che il regista riscontra come comune tra gli artisti della sua generazione – Ortoleva presta estrema attenzione a definire il proprio teatro “politico”: «il teatro è un momento di contatto con la realtà, che deve spingere ad agire su di essa, ma non è un atto politico in sé. Il vero atto politico è l’azione che ne consegue». Ciò che il regista ricerca con il suo lavoro, come risulta evidente anche dal labor limae sulla recitazione portato avanti con gli attori del seminario, è una narrazione efficace, che possa far breccia nello spettatore, senza però offrire una facile morale. Per Ortoleva «il teatro può raccontare ciò è accaduto, ma deve essere lo spettatore a riflettervi per capire come agire su un certo aspetto della realtà. Per me la politica e il teatro sono due cose molto separate».

A breve, Ortoleva dirigerà un saggio con i ragazzi che frequentano il biennio di formazione dell’Accademia Silvio D’Amico, e anche questo progetto futuro si rivela animato da queste ultime riflessioni: «Metteremo in scena Risveglio di primavera di Wedekind, un testo che affronta un tema che si sta dimostrando sempre più attuale, ovvero l’educazione sessuale tra i giovani». Ad attrarre il regista, però, è proprio la dinamica per cui la critica al moralismo di fine ottocento presente nell’opera non ne esaurisce la ricchezza, ma anzi si rivela insufficiente: conoscere il sesso non basta per evitare quanto di oscuro questo possa contenere. Di fronte alla nostra realtà, che tanto dimostra il bisogno di un’educazione affettiva diversa, non è difficile avvertire come vere e pesanti le parole di questo giovane regista: il teatro è un luogo meraviglioso dove possiamo spendere il nostro tempo, e i suoi frutti vanno colti una volta che ne siamo usciti.

a cura di Serena Chiaramonte


in copertina: Giovanni Ortoleva, La dodicesima notte (o quello che volete), foto di Luca Del Pia

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2