«Conosci la Schattenlinie?»: con questa domanda si apre e si chiude il Wilhelm Tell di Milo Rau in scena fino al 18 giugno allo Schauspielhaus di Zurigo (Pfauen). Con il termine Schattenlinie, “linea d’ombra”, sulle Alpi svizzere si indica la linea creata dalla luce del sole che, sui fianchi delle montagne, divide la neve destinata a rimanere ghiaccio perenne da quella che si scioglierà dando spazio alla vita: un confine netto quanto sottile, inafferrabile come un fascio di luce. È proprio sulla convivenza intima di contrasti e sui molteplici piani di osservazione della realtà che Milo Rau ha costruito il suo Wilhelm Tell, a cui ha dato il sottotitolo inglese 97% Tell – 98% Us – 99% A story. La percentuale del riferimento al dramma di Friedrich Schiller (1804) da cui è ufficialmente tratto lo spettacolo non viene dichiarata. «Il Tell di Schiller è una figura complessa, romantica ed esoterica, che al tempo stesso permette di mettere un eroe a confronto con giustizia e con la verità» afferma il regista in un’intervista concessami a pochi giorni dal debutto, che riesce a far emergere nella sua pièce la doppia natura del personaggio: l’eroe tirannicida tanto quanto il cacciatore che si fa giustizia da solo, per poi ritirarsi a vita privata.

Per confrontarsi con l’eroe nazionale svizzero, l’autore ha scelto lo Schauspielhaus, che durante il regime nazista ha garantito incolumità e libertà di espressione al cosiddetto Exile-Ensemble, composto da artisti e intellettuali internazionali in fuga. Molti anni più tardi, nel 2001, lo stesso palcoscenico avrebbe ospitato l’Amleto di Christoph Schlingensief, vietato dalla direzione a causa del coinvolgimento di veri esponenti del movimento neo-nazista e rappresentato ugualmente grazie allo staff zurighese che si presentò in teatro in sostegno al regista. A raccontare l’aneddoto è l’attore tedesco Sebastian Rudolph: Amleto per Schlingensief e balivo Gessler per Rau, in entrambi i casi in uniforme delle SS. Con lui sono in scena Michael Neuschwander e Karin Pfammatter, che si autodefiniscono «gli unici due svizzeri rimasti» della compagnia, e l’attrice tedesca Maja Beckmann, insieme a un cast internazionale e multiforme composto dallo staff dell’ensemble zurighese, attivisti, vittime, testimoni e protagonisti della storia svizzera contemporanea. Ognuno porta in scena sé stesso in una performance corale senza soluzione di continuità che, attraverso un mosaico di storie esemplari, ritrae la Svizzera nel 2022, dal cacciatore al perseguitato. 

foto: © Flavio Karrer

A tenere insieme la trama sono le risposte alle domande poste agli attori durante i provini («Cos’è per te la libertà? Qual è la tua scena preferita del Wilhelm Tell?») e le scene più significarive di una nota versione antifascista dell’opera, interpretata allo Schauspielhaus nel 1939 da Heinrich Gretler e ora proiettate su uno schermo velato che, come una linea d’ombra, tripartisce lo spazio e il tempo della scena: tra passato e presente, leggenda e realtà, società patriarcale e società di diritto. «Nei miei lavori amo confrontarmi con materiale che ha un impatto immediato, in grado di connettersi con l’inconscio di una cultura o di una nazione. Cerco testi che non hanno bisogno di essere spiegati[…]» racconta Rau, che con il Tell ha portato il suo tribunale etico non solo nel cuore dell’identità svizzera, ma anche nell’anima della cultura europea. Dopo City of Change (2010/2011) e Die Zürcher Prozesse (2013), Rau vuole infatti contestualizzare la storia svizzera nel panorama globale e al tempo stesso demolire il feticcio Tell. Alla luce dell’amaro refrain «I’m so tired of you, Switzerland!» che attraversa l’intera performance, nonché del valore attribuito all’epica nazionale in tempi recenti, viene da chiedersi se sia ancora oggi possibile parlare di eroi e di identità nazionale senza incorrere nelle trappole del populismo o della banalizzazione. «Lo è» risponde Rau «se consideriamo una nazione come un’unità minima di solidarietà. […] L’eroismo oggi deve rivolgersi ad un miglioramento strutturale della condizione umana». Perciò, sottolinea il regista, bisogna accettare che quella dell’eroe sia un’identità flessibile: però esistono delle comunità, esiste il rispetto reciproco. Nella sua versione del dramma schilleriano, il personaggio di Tell rinasce moltiplicato sulla scena come donna, come immigrato oggi direttore artistico dello Schauspielhaus (Aleksandar Sascha Dinevski), come attivista per i diritti dei disabili (Cem Kirmizitoprak), come infermiera (Vanessa Gasser), come attrice e attivista contro le discriminazioni sul lavoro (Maya Alban-Zapata). Il finale riunisce pubblico e performer nell’enactment di un doppio rituale collettivo dai toni kitsch: il matrimonio grazie al quale il sans-papiers Hermon Habtemariam può ottenere il permesso di soggiorno, e il canto gospel dell’inno nazionale elvetico, durante il quale Alban-Zapata invoca (senza successo) la partecipazione degli spettatori. 

foto: © Flavio Karrer

A legare il presente al passato si situa un episodio storico realmente accaduto. È la vicenda raccontata in prima persona da Irma Frei, chiamata a offrire la propria testimonianza a nome di tutti coloro che hanno subito il suo stesso destino: quello dei tanti giovani (spesso minorenni) provenienti da orfanotrofi e collegi “per ragazzi difficili”, impiegati ai lavori forzati nelle fabbriche di proprietà Bührle tra gli anni ‘50 e’60 del secolo scorso. Dietro a questa buio episodio si nasconde l’ancor più buia storia di Emil Bührle (1890-1956), armatore e collezionista, che si arricchì durante la seconda Guerra mondiale fornendo armi alla Germania e all’Italia. Nel 2021 la Kunsthaus di Zurigo ha inaugurato un padiglione dedicato alla Stifung Sammlung E. G. Bührle: una collezione di 633 opere d’arte, tra cui il celeberrimo Campo di papaveri a Vétheuil di Claude Monet, raccolte tra il 1936 e il 1959. Più di 90 opere (attualmente ritirate dall’esposizione), compreso il Monet, avrebbero quella che la stessa Stiftung Sammlung è costretta a definire una “provenienza problematica”: sono state acquisite in modo più o meno legale da famiglie e collezionisti ebrei a Parigi, durante l’occupazione nazista. Inoltre, come sottolinea Rau nella nostra conversazione, 233 opere della collezione sono state comprate tra il 1940 e il 1944 grazie all’industria bellica. 

foto: © Flavio Karrer

Per l’autore del Nuovo Vangelo questo Guglielmo Tell è uno dei lavori che più ha diviso la critica, mettendo alla prova il pubblico più fedele e fomentando la stampa avversaria (è il caso della stroncatura del settimanale di destra Weltwoche). Per alcuni non c’è abbastanza Schiller, per altri non c’è abbastanza Rau, per altri ancora il dramma mancherebbe di profondità. Certo è che, osannato e crocifisso come Schlingensief e Pasolini, l’autore ha accolto la difficile sfida di mettere la propria patria davanti allo specchio e per farlo ha scelto il terreno insidioso dell’epica, in grado di raggiungere meccanismi emotivi nascosti e inaspettati.

Ma queste riflessioni interessano limitatamente Rau, per il quale la messa in scena non è che «l’ultimo episodio di un lungo processo che ha un impatto effettivo sulla realtà», iniziato in questo caso con un viaggio on the road attraverso il paese per interrogare i suoi abitanti sull’eroismo e sulla libertà. Intorno allo spettacolo ruotano altre azioni, tanto simboliche quanto efficaci, che vedono la Svizzera e la città di Zurigo direttamente coinvolte: tra queste, la messa all’asta di due NFT (non fungible token) che rappresentano Irma Frei accanto al Campo di papaveri a Vétheuil con alcuni slogan dell’artista Miriam Cahn (il ricavato delle vendite verrà devoluto alla Autonome Schule Zürich per il supporto dei sans-papiers); la performance del matrimonio tra Sarah Brunner e Hermon Habtemariam nella Wasserkirche di Zurigo (effettivamente regolarizzato dal contratto di lavoro per lo spettacolo); il rito sciamanico nelle sale della collezione Bührle per liberare le opere d’arte dal sangue versato; la campagna di donazioni per l’organizzazione Artists at Risk a sostegno degli artisti in territori di guerra; il Doppelspiel, un laboratorio sull’eroismo dedicato ai piccoli spettatori dello Schauspielhaus. 

«A me interessa la verità» afferma Rau, che con questo intende una verità «biblica», molteplice, frutto di un mosaico di soggettività che emergono come voci distinte dal dramma corale e dalle azioni sociali a esso correlate. Al tempo stesso, però, la verità è da intendersi come etica, come giustizia universale di cui Tell, mediatore tra natura e società e figura di passaggio tra mondo arcaico e modernità, è portavoce nel dramma schilleriano. «Duecento anni fa per qualche ragione ci si aspettava che la verità arrivasse dalla Svizzera», continua il regista, mettendo improvvisamente in luce un’altra Confederazione Elvetica, nata nel 1291 da un patto di tolleranza e solidarietà nelle differenze: la patria di Jean-Jacques Rousseau e il rifugio dei dissidenti in fuga nel cuore della cultura europea. Questa immagine, tuttavia, viene rapidamente messa da parte davanti agli interrogativi impellenti che Rau sottopone allo spettatore: quale etica deve perseguire un eroe e a quali leggi deve sottostare? L’ultimo personaggio del Wilhelm Tell schilleriano su cui viene virata l’attenzione, non a caso, è Giovanni Parricida, il duca di Svevia che, dopo aver ucciso l’imperatore Alberto I d’Asburgo, cerca riparo a casa dell’eroe svizzero e viene scacciato da quest’ultimo come un brutale assassino, la cui unica speranza è l’assoluzione papale. Se nell’opera di Schiller questo episodio ha la funzione di mettere in risalto l’eroismo “borghese” di Tell e demonizzare l’utilizzo della violenza come strategia politica, Milo Rau lo utilizza per sottolineare la hybris del protagonista, che si autoassolve come tirannicida e legittima l’omicidio per ragioni private, mettendo in luce la tragica attualità dello scontro irrisolto fra legge naturale e norma istituzionale. 

Benedetta Bronzini

foto di copertina: © Philip Frowein


WILHELM TELL

con Maya Alban-Zapata, Maja Beckmann, Michael Neuenschwander, Karin Pfammatter, Sebastian Rudolph, Emma Lou Herrmann (live video), Aleksandar Sascha Dinevski, Cyrill Albisser, Sarah Brunner, Irma Frei, Vanessa Gasser, Oskar Huber, Cem Kirmizitoprak, Meret Landolt, Louisa Maulaz, Hermon Habtemariam
extras Cristiano Giudici / Stefan Vogel
regia Milo Rau
scena e costumi Anton Lukas
sound design Elia Rediger
video Moritz von Dungern
luci Christoph Kunz
drammaturgia Bendix Fesefeldt
audience development Silvan Gisler
pedagogia teatrale Manuela Runge / Rosa-Lin Meessen
executive producers Monika Huber / Negi Urban / Laura Weibel
associate producer Rosa Stehle
consent coach Kasia Szustow
collaborazione alla ricerca Rolf Bossart
guida delle/gli performer non professionisti Jasmin Gloor / Anna Schöb
assistenza alla scenografia Karl Dietrich
assistenza ai costumi Naïma Alissa Trabelsi / Valeria Ballek
stagista alla produzione Rosa-Lin Meessen
stagista alla drammaturgia Ricarda Hillermann
stagista alla scenografia Vona Bürki / Marlene Metzler
stagista ai costumi Carla Schwarb
direzione di scena Aleksandar Sascha Dinevski
traduzione dei sovratitoli Corinne Hundleby
sovratitoli Einrichtung PANTHEA
suggerimento János Stefan Buchwardt
realizzato con il sostegno di Stiftung Corymbo Dätwyler Stiftung, Kanton Uri & Kanton St. Gallen