di Dennis Kelly
regia di Fabrizio Arcuri – Accademia degli Artefatti
visto al teatro Elfo Puccini _ 3-5 dicembre 2013

In contemporanea con la prima newyorkese al Manhattan Theatre Club, dove è in scena per un mese di repliche l’allestimento di Erica Schmidt, Taking care of baby dell’inglese Dennis Kelly (2007) approda anche a Milano: a interpretare il “verbatim theater” o docutheater di Kelly è l’Accademia degli Artefatti, protagonista in questi giorni di una retrospettiva al Teatro Elfo Puccini.
Si tratta di un lungo testo che parte da un assunto: tutto quello che vedrete è vero, le parole sono state davvero pronunciate, i personaggi hanno agito così. La verità è il nocciolo della drammaturgia: il gioco sarà quello di svelare e poi nascondere parti di essa, allo spettatore il compito di metterle in fila e ricostruire. La storia è quella di una donna che viene accusata di aver assassinato i suoi due bambini. Uno alla volta, conosciamo gli altri personaggi: il marito, la madre dell’accusata – una politica locale impegnata in campagna elettorale – uno psichiatra e sua moglie. Come in quel capolavoro di Kurosawa che è Rashomon, ciascuno dà la propria versione dei fatti, senza linearità e consequenzialità.
Ovviamente, nulla di quello che accade in scena è mai accaduto nella realtà, non esistono persone in carne e ossa che abbiano quei nomi e non c’è un unico fatto di cronaca cui si è attinto per costruire il testo, sebbene Kelly abbia preso spunto da un paio di casi giudiziari inglesi. Eppure, dall’inizio alla fine, il patto con lo spettatore è mantenuto piuttosto saldo e spinge, una volta a casa, a controllare se davvero sia mai esistita una Donna McAuliffe, la protagonista che potrebbe (o potrebbe non) avere commesso il più atroce dei delitti, l’infanticidio.
Senza stare a scomodare un paragone con Medea, senza mettersi a fare filosofia sul senso della parola verità, va riconosciuto al testo di Kelly un pregio, che anche gli Artefatti sanno mettere in luce: ad emergere è l’essere umano, narratore inaffidabile soprattutto quando parla di sé. E nell’epoca del narcisismo 2.0, del trasbordo perenne e indifferenziato sui social media di tutto ciò che facciamo e diciamo, questo docudramma racconta la difficoltà di dire la verità, di trovarla e incatenarla a una prospettiva credibile e che si mantenga tale, oltre la sua rappresentazione.
La regia di Arcuri sceglie un ritmo rallentato (forse troppo), usa il video per una sorta di presa diretta, mostra le telecamere del documentarista senza paura di forzare la mano, alterna il recitato più impostato alla naturalezza, da incanto, di una Isabella Ragonese guest star che sa restituire alla madre, forse impazzita o forse no, il volto della sofferenza e dell’incredulità, ma anche quello dell’indifferenza, male del secolo.
Dopo quasi due ore, forse un po’ tardi perché il pubblico se la gusti davvero, ecco la chiave di volta dello spettacolo: Martin, padre e marito disperato, accetta di parlare alla condizione di rispondere solo con un sì o con un no. Ed è così, che, finalmente, ci convinciamo che la verità non la sapremo mai. Tutto quello che possiamo (o sappiamo) fare, noi umani, è annuire o negare. “In Taking care of baby, molte delle risposte cadono in questo buco senza fine che giace tra il sì e il no”, ha scritto a questo proposito Ben Brantley sul New York Times. Giudicate voi se sia un bene o un male.

Francesca Gambarini