Com’è nato lo spettacolo? Io sono il bianco del nero: perché?
Lo spettacolo ha una storia lunga perché ha alle spalle un lavoro che ho fatto qualche anno fa a partire dal filosofo Gaston Bachelard, da cui è nato Le Vent Noir. Il “vento nero” è l’immagine simbolica psichica che indica il labirinto, in quanto il nero è colore che ti afferra, che ti ingoia. Io volevo uscire da questo labirinto, ne sentivo la necessità soprattutto a livello personale e così mi sono concentrata sul bianco per cercare questa via d’uscita verso il mondo. E così è nato Io sono il bianco del nero.

Il lavoro sulla dimensione onirica è evidente in molte scelte: perché hai indagato proprio questo campo?
La scelta di una dimensione onirica e atemporale è legata sia al lavoro su Bachelard e sugli autori che riprende, tra cui Eliot e The Waste Land che cito spesso, sia ad avvenimenti più autobiografici e personali. È inevitabile parlare di sé nei propri lavori, inoltre, in quanto autrice, tendo a mettere in ciò che faccio tutto quello che sono, credo sia in un certo senso una vocazione del femminile. In questi ultimi anni ho vissuto delle perdite e mi sono spesso interrogata sul rapporto tra me e ciò che non c’è più, o almeno sembra non esserci più: per questo ho scelto un’atmosfera velata con la nebbia iniziale, la luce soffusa e al neon, un silenzio che va e viene e così via. Sono immagini legate alla dimensione del ricordo e del sogno, di ciò che è appunto atemporale. E nello spettacolo si vede questo continuo passaggio da una parte all’altra del tempo, da un “di qua” attraverso un luogo di transizione che ci porta verso una sacralità.

Quanto è importante questa sacralità di cui parli? Cos’è “sacralità”?
C’è stato un momento della mia vita in cui ho perso i miei genitori e sono andata in un’isola sperduta del Mediterraneo, Amorgos, in quanto nell’urbano non riuscivo a collegarmi con la realtà intorno a me. È un’isola molto santa e ricca di energia, dove c’è un vero legame tra la vita dell’uomo con la spiritualità, l’imponderabile, la natura. Il rito è molto importante per i luoghi del sud del nostro paese, e proprio lì ho trovato quello che cercavo: la connessione tra me e tutto ciò che c’è intorno e che mi porto appresso. Per questo ci sono riferimenti in questo spettacolo vicini alla spiritualità e all’ortodossia: li vediamo ad esempio nella danzatrice che si mette in testa un fazzoletto, nel Shabbat ebraico o nelle danze greche. Proprio nell’ultima scena c’è il fuoco delle candele e ci sono i piatti che i danzatori si passano: simboleggiano il cibo dell’anima, un nutrimento semplice di cui io avevo bisogno.

Giulia Villa


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView