di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
produzione Fibre Parallele
visto al Teatro Franco Parenti_6-18 dicembre 2016

Dal mito della caverna platonico, passando per Pirandello, fino alla recentissima serie-cult Westworld: non si smette mai di interrogarsi sul confine tra realtà oggettiva e soggettiva, tra mondo reale e immaginario. Anche La beatitudine, spettacolo del gruppo pugliese Fibre Parallele, in scena al Teatro Franco Parenti fino a domenica, si apre con un monologo molto esplicito su questo tema, che suona come un prologo di metodo: “Eccoci qua. Siete qui davanti a me, ci siete, siete reali. Vi vedo. Io ci sono, mi posso toccare, se mi do uno schiaffo mi fa male. Se tocco questa sedia, lo sento, esiste davvero. Tutto è iniziato a succedermi quando per la prima volta ho pensato: e se non fosse così? Se tutto ciò non fosse reale?”

Licia “34 anni, bilancia” ha smesso di fare differenza “tra ciò che è reale e ciò che non lo è”, creando una realtà propria. Il figlio tanto voluto non arriva? Un bambolotto di plastica può prenderne il posto, se si è disposti fino in fondo a crederlo ‘vero’.
Da qui prendono il via le vicende di Licia e del suo compagno Giandomenico a cui si affiancano, in parallelo, quelle di Lucia, mamma iperprotettiva al limite del morboso, e di Danilo, figlio adulto e disabile oppresso dalle attenzioni materne. Due mondi destinati presto a incontrarsi in un curioso scambio di coppia (Licia-Danilo; Giandomenico-Lucia), in un estremo tentativo di evadere da una realtà di dolore.

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La simmetria tra personaggi maschili e femminili, già sottolineata dai costumi (tutti neri e identici per i due uomini e per le due donne) si esplicita nel finale quando le madri si riconoscono l’una nell’altra come in uno specchio. Entrambe vivono una maternità che è innanzitutto mancanza, frustrazione e sofferenza a cui reagiscono cercando, a tutti i costi, un momento di beatitudine. Il raggiungimento della felicità si concretizza non come un percorso a lungo termine, ma come ricerca di un istante di sospensione del dolore, di uno stato di grazia momentaneo, legato a doppio filo a una sessualità intesa come perdita del sé. È un gioco in cui vale tutto e in cui le conseguenze, anche se tragiche, non hanno alcun conto per i protagonisti.
Ma in fondo che importa? Sono gli stessi personaggi in scena a dirci che tutto ciò a cui abbiamo assistito è pura finzione. Gli attori – che già all’inizio dello spettacolo sono in piedi nel proscenio a commentare l’entrata in sala degli spettatori in una rottura totale della finzione drammatica – si rialzano ora tra i cocci lasciati dalla carneficina finale, come nulla fosse successo, quasi rinati dopo una performance liberatoria.

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C’è molto nello spettacolo di Fibre Parallele. Innanzitutto un interessante scarto tra i diversi piani di realtà: in una rappresentazione a doppio livello di finzione i personaggi hanno tuttavia le generalità reali degli attori e sembrano raccontare una storia non lontana dalla loro biografia.
A fare da collante ma anche da tramite tra i diversi piani è un personaggio ambiguo e molto silenzioso, presente fin dall’inizio della pièce, il mago Cosma Damiano, che prende il nome dagli omonimi “santi medici”, nel culto pugliese detti anche “Cosimi”. Un po’ Mr. Wolf di Pulp Fiction un po’ inquietante personaggio lynchiano, interviene nei momenti critici (in aiuto?) dei personaggi quasi fosse un regista-suggeritore la cui presenza resta volutamente ambigua e insoluta nello spettacolo.
Ma non è il solo elemento in qualche modo riconducibile al grande schermo: l’immaginario cinematografico attraversa in più momenti la scrittura e l’estetica di questo lavoro, confermando la capacità del gruppo pugliese di porsi in relazione profonda con i linguaggi del contemporaneo. A partire dalla musica che non si riduce a semplice accompagnamento, ma diventa vera e propria colonna sonora dei momenti più intensi della pièce: Ára Bátur, brano degli islandesi Sigur Rós, tra le band più visionarie degli ultimi anni, è una scelta azzeccata, ma a volte un po’ insistita. Una scena che in qualche modo ricorda l’estetica sorrentiniana è invece quella della danza, delicata e buffa, di Lucia e di Licia, con cui le donne danno il via all’anagnorisis.
Questo risvolto poetico ed emozionale, che fa da contraltare al mondo più scuro e desolato su cui si apre lo spettacolo, è però destinato a estinguersi in un finale tutt’altro che consolatorio: la scritta luminosa “La beatitudine” che dallo sfondo del palco fa da didascalia alla catarsi degli attori in scena, non rimarrà accesa a lungo; giusto il tempo della finzione.

Camilla Lietti